“La terra del Sacerdote” di Paolo Piccirillo
di Kathrine Budani / 14 novembre 2013
«La terra del Sacerdote è una terra avida, non dà né frutta né verdura. Tiene tutto per sé. Quel poco che dà, lo dà male. Non sazierebbe neanche un cane randagio. E anche se sono anni che il Sacerdote la cura, la sua terra non è diversa da una terra abbandonata, morente. L’insalata del Sacerdote ad esempio nasce sporca. Non è quella spolverata di terra che ogni piede di insalata ha. Questo è un nero perenne, che le foglie mostrano più del verde che dovrebbe avere».
Agapito ha vissuto a Stoccarda di espedienti, talvolta ha rovistato fra la spazzatura ed è persino diventato il sacerdote di una piccola comunità di italiani. Macchiatosi di una colpa difficile da espiare è tornato nella natia Monteroduni, in Molise, dove ha ricevuto dal suo complice Mariano una terra, in cambio del silenzio. Gli anni sono trascorsi e Agapito, ormai vecchio, è prigioniero di una squallida routine, fatta di silenzi ostinati in casa e sudore sui campi riarsi: vive con la moglie, malata terminale, e cerca invano di coltivare quella terra sterile e maledetta, come lui.
Florì è una giovane clandestina, vittima di un’associazione criminale: deve pagarsi la libertà partorendo quattro bambini, destinati alle adozioni clandestine o al commercio di organi. Viene tenuta prigioniera nel terreno confinante con quello del Sacerdote. Finché una notte riesce a fuggire e dà alla luce un bambino morto proprio sul terreno di Agapito. L’incontro di queste due esistenze miserabili scatena una serie di miracoli e delitti che avvincono il lettore, in una ridda di sentimenti contrastanti: la repulsione per la crudezza di certe realtà descritte e il fascino di una prosa vibrante, mai banale, arricchita da metafore lontane da ogni cliché.
Paolo Piccirillo è stato paragonato a McCarthy e alla Kristof, ma il suo stile sfugge a una semplice classificazione: un realismo di stampo vagamente verghiano è controbilanciato da una visionarietà lirica che può tramutarsi in favola, paradigmatica come un mito platonico.
La terra del Sacerdote è un piccolo universo antibucolico popolato da personaggi amorali: anche i peggiori crimini sono meccanici, necessari. La natura è matrigna e il Bene è solo ciò che mette a tacere il dolore dell’esistenza. Ecco perché non c’è alcun senso di giustizia, né si avverte l’esigenza di una condanna: in questa campagna arida si incontrano individui come Maurizio “Baffo di Cane”, il folle del villaggio, condannato a portare ogni giorno una croce immaginaria sulle spalle, o come il giovane Armando, che sogna di fare il notaio a Milano, ma nel frattempo aiuta lo zio nei suoi loschi traffici. Lo stesso Agapito, prete spretato, in un primo momento non disdegna di invischiarsi nel traffico di neonati, diventando il nuovo custode di Florì. Tutti sono colpevoli e nessuno lo è veramente.
Leggendo La terra del Sacerdote ho sentito il sapore delle ballate di De André, di cui Piccirillo è grande estimatore. Del grande cantautore c’è la descrizione priva di pregiudizi della vita umile, trasfigurata dalla poesia. Ho pensato a canzoni come “La Città Vecchia”, “Delitto di paese” e “Via del Campo”. E sono forse le parole finali di quest’ultima la giusta chiave di lettura per tutto questo soffrire: «Dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fior».
(Paolo Piccirillo, La terra del Sacerdote, Neri Pozza, 2013, pp. 240, euro 16,50)
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