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	<title>Carlo Betocchi &#8211; Flanerí</title>
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	<description>Rivista di cultura e di narrativa</description>
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		<title>Carlo Betocchi e la storia</title>
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		<pubDate>Thu, 21 Apr 2016 20:56:11 +0000</pubDate>
		<dc:creator><![CDATA[Fabrizio Miliucci]]></dc:creator>
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		<category><![CDATA[LaCritica]]></category>
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		<category><![CDATA[Carlo Betocchi]]></category>
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				<content:encoded><![CDATA[<p>La poesia di Betocchi sorge sulla poesia italiana degli anni Trenta come un’alba silenziosa e nuova. Dalle pagine di <i>Il Frontespizio</i>, la rivista da cui si staccherà un gruppo di intellettuali “dissidenti” che getteranno le basi per una stagione di altezze verticali e inespugnabili nel disegno di una <i>letteratura come vita</i>, il cattolicesimo «pasquale e creaturale» di Betocchi risuona, con tutti gli armonici di un Ottocento ancora vitale, della gioia e del mistero della (ri)nascita, all’indomani della fine della Grande Guerra.</p>
<p>Si capirebbe molto poco del periodo dell’<i>entre-deux-guerres</i> e di tutto quello che è venuto dopo nel panorama della nostra poesia e storia spirituale, ignorando un autore ormai quasi estromesso dal canone novecentesco come Betocchi. Padre, anzi fratello maggiore dei prossimi Luzi e Caproni, ma anche di autori insospettabili come Emilio Villa (su cui ci ripromettiamo di tornare), Betocchi cantò con accenti oggi quasi incomprensibili la dignità del dolore e la bellezza e la purezza («l’odore casto e gentile» dirà Penna) della povertà.</p>
<p>Diciottenne, aveva partecipato insieme ai suoi colleghi del ’99 alla rotta di Caporetto, scrivendo negli anni presaghi dell’<i>altra guerra</i>, quando il fascismo cominciava a farsi rampante nella sua smania di egemonia, un resoconto in due puntate recentemente ripubblicato dall’editore Raffaelli di Rimini: <i>L’anno di Caporetto</i>:</p>
<p>«Che cosa è in questa vastità tetra e fragorosa, pur nel suo silenzio viscido e quasi mortale, quanto ho raccontato e quanto sto per raccontare io a proposito di infinite inezie? Ero uno di quella moltitudine e quello che io vedevo, certo, faceva parte di tutto il tragico quadro al quale insieme concorrevamo: ma con quale timore rinnovo la mia memoria, le cose da nulla che mi occorrevano, le ricerco, le soppeso e quante volte ripetutamente rimango accasciato e pieno di sfiducia su queste pagine!» (C. Betocchi, <i>L’anno di Caporetto</i>, Raffaeli, 2014, p. 38)</p>
<p>Nel 1932 esce la sua prima raccolta, <i>Realtà vince il sogno</i>. In essa si condensa il punto di partenza di un autore che avrà negli anni uno sviluppo decisivo nella descrizione esistenziale di una vita sondata sin nei più nascosti recessi sentimentali e psicologici, e di una fede vissuta sempre con un’ombra di sospetto sul cuore. Ma per ora gli scenari betocchiani sono quelli della Toscana rurale e cantante dove aveva vissuto la giovinezza, nonostante fosse nato a Torino. Uscite importanti sono ancora <i>Altre poesie</i> (1939); <i>Il vetturale di Cosenza</i> (1959); <i>L’estate di San Martino</i> (1961) e <i>Un passo, un altro passo</i> (1967) che inaugurano una stagione di lunga e sofferta vecchiaia in cui il tono si fa più discorsivo dilatandosi in lunghe lasse di versi.</p>
<p>Per questo poeta tutto raccolto nel mistero dell’uomo si è di rado messa in rilievo l’adesione dolente a una storia che condensa il cuore nero del Novecento, e che emerge anche nei più insospettati paesaggi sospesi su un senso di imminente fatalità, quando invece non compare nell’interezza della sua devastazione, come in <i>Rovine 1945</i>:</p>
<p>Non è vero che hanno distrutto<br />
le case, non è vero:<br />
solo è vero in quel muro diruto<br />
l’avanzarsi del cielo</p>
<p>a piene mani, a pieno petto,<br />
dove ignoti sognarono,<br />
o vivendo sognare credettero,<br />
quelli che son spariti&#8230;</p>
<p>Ora spetta all’ombra spezzata<br />
il gioco d’altri tempi,<br />
sopra i muri, nell’alba assolata,<br />
imitarne gli incerti&#8230;</p>
<p>e nel vuoto, alla rondine che passa.</p>
<p>&nbsp;</p>
<p>Sulla sospensione reiterata di quei tre puntini che mozzano la frase indicibile sta il segreto di una umanità che prova a rialzarsi nell’assurda certezza del proprio dolore («non è vero&#8230; solo è vero»). Il cielo, sembra dire un Betocchi <i>flâneur</i> delle rovine, può pesare sulle coscienze più di una maledizione. Nella verità e nella realtà di una condizione il più vicino possibile alla elementarità dell’uomo risuona l’eco della perdita e dell’assenza, stemperata sulla figura cristologica, salvifica e terribile, della rondine che passa. Tuttavia la perdita e l’assenza di Betocchi non indulgono mai al cupo ripiegamento dell’anima, e conservano in sé una forza creatrice che ben descrive ciò che, passiti i primi giorni di quel <i>’45</i> evocato nel titolo, diventerà la voglia di riscatto della ricostruzione.</p>
<p>Quello che i poeti della generazione successiva hanno imparato da Betocchi forse più che da chiunque altro è stato descrivere per via di suoni elementari ma forti, spezzati, il fragore interiore degli eventi storici, individuali e generazionali. I ritmi furiosi e l’accavallarsi di suoni base nelle assonanze di i/e/o («a <b>piene</b> mani, a <b>pieno</b> p<span style="text-decoration: underline;">etto</span>, / dove i<i>gn</i>oti so<i>gn</i>arono, / o vivendo so<i>gn</i>are cedettero») o nell’iterazione delle a («Ora <span style="text-decoration: underline;">spetta</span> all’ombra <span style="text-decoration: underline;">spezz<i>a</i></span><i>ta</i> / il gioco d’altri tempi, / sopra i muri, nell’alba assol<i>ata</i>») rappresentano il più vivo esempio di una composizione che unisce la volontà descrittiva al resoconto subliminale di uno stato d’animo scosso e pronto a reagire. Ancora alcuni versi di guerra da <i>Isernia</i>: «[…] M’han parlato col cuore qui ad Isernia, / in tanti; e mi sentii inverdire, addosso, / gli stinti panni di guerra del quindici, / quando infittivan reggimenti / come di foglie, è canto d’Ungaretti, / su cui passava l’autunno».</p>
<p>Betocchi è un poeta dalle aperture folgoranti, dalle descrizioni piene di grazia ed energia, dalle ripetizioni perentorie e dalle negazioni desolate e risentite. La sua vicenda poetica, oggi un po’ abbandonata, conduce al cuore del secolo e del contrasto non per via intellettuale ma seguendo le tracce di un «muto discorso anonimo» che cercava così di farsi universale.</p>
<p>&nbsp;</p>
<p><i>Dai tetti</i></p>
<p>È un mare fermo, rosso,<br />
un mare cotto, in un’increspatura<br />
di tegole. È un mare di pensieri.<br />
Arido mare. E mi basta vederlo<br />
tra le persiane appena schiuse: e sento<br />
che mi parla. Da una tegola all’altra,<br />
come da bocca a bocca, l’acre<br />
discorso fulmina il mio cuore.<br />
Il suo muto discorso: quel suo esistere<br />
anonimo. Quel provocarmi verso<br />
la molteplice essenza del dolore;<br />
dell’unico dolore:<br />
immerso nel sopore,<br />
unico anch’esso, del cielo. E vi posa<br />
ora una luce come di colomba,<br />
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira<br />
sterminata, la vampa che rimbalza<br />
d’embrice in embrice. E sempre la stessa<br />
risposta, da mille bocche d’ombra.<br />
– Siamo – dicono al cielo i tetti –<br />
la tua infima progenie. Copriamo<br />
la custodita messe dei tuoi granai.<br />
O come divino spazia su di noi<br />
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.</p>
<p>&nbsp;</p>
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