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La nuova filologia di Michele Barbi

di Chiara Gulino / 7 aprile

 

Il 23 settembre saranno passati 70 anni dalla morte di Michele Barbi. Per i non addetti ai lavori questo nome suonerà pressoché sconosciuto. Eppure i lettori di Dante nonché di alcuni dei nostri maggiori scrittori della letteratura italiana e della nostra storia patria forse non sanno che molto devono a questo studioso se leggono quei capolavori nella forma oramai oggi vulgata.

Filologo dotato di una profonda, viva e sensibile erudizione, estremamente attento alla realtà storica e individuale della parola poetica, Barbi già nella sua tesi di laurea, pubblicata a Pisa nel 1890, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, come notò Luigi Russo nella Commemorazione a Michele Barbi (1942), «…denuncia, sin dalle prime prove, una sua originalità di vedute e una vocazione istintiva verso un determinato gruppo di problemi che poi […] resteranno i cardini di tutta la sua vita e della sua operosità avvenire.», ovvero quelli d’ordine testuale relativi alla Divina Commedia, fissando i postulati di una metodologia che il tempo avrebbe solo affinato e scaltrito. Infatti Barbi verrà riconosciuto più tardi come maestro di una “nuova filologia”, basata su una “larga esplorazione di codici” anziché su un “solo manoscritto senza errori” (M. Barbi, Della fortuna di Dante). E proprio come critico dantesco è passato alla storia della letteratura italiana e giudicato unanimemente il padre dei moderni studi filologici danteschi e uno dei migliori interpreti del poema dantesco.

Nacque il 19 febbraio 1867 a Taviano, frazione di Sambuca Pistoiese. Frequentò il Liceo Forteguerri di Pistoia dove Giovanni Procacci, letterato, poeta e prosatore, lo avviò agli studi intuendone le capacità. Nel 1888 pubblicò il suo primo articolo su «Archivio per le tradizioni popolari» attorno ai Maggi pistoiesi, tradizionale festa dell’Appennino tosco-emiliano con la quale si festeggia l’arrivo della primavera, avviando l’importante filone di ricerca sulla poesia e la canzone popolare italiana. Nel 1889 si laureò alla Scuola Normale Superiore di Pisa con il professore di letteratura italiana Alessandro D’Ancona, maestro del metodo storico, con la tesi sopra citata. Nel 1890 intraprese la carriera di insegnante delle scuole medie  e ricevette la direzione del «Bullettino», l’organo di stampa ufficiale della «Società Dantesca Italiana» appena fondata, diventando in un certo senso il moderatore della critica dantesca in Italia e all’estero. Gli articoli scritti per tale organo e poi dal 1920 per gli «Studi danteschi» furono raccolti nei due volumi di Problemi di critica dantesca (I serie, 1893-1918, Firenze 1934; II serie, 1920-1937, Firenze 1941), in cui Barbi cerca di fare chiarezza sui punti oscuri della biografia dantesca, su questioni controverse di storia fiorentina, sui problemi cronologici delle opere dantesche, sulla filosofia e l’interpretazione del poeta fiorentino.

Incaricato dalla «Società Dantesca Italiana» di stendere un piano organico di lavoro per un’edizione critica di tutte le opere del Sommo poeta e di redigere una bibliografia ragionata per il «Bullettino», ricevette nel contempo l’incarico per l’edizione della Vita Nuova e delle Rime e per questo dispensato dall’insegnamento. Avviò le ricerche sui manoscritti del poema, portando alla scelta di circa 400 punti discriminanti (il cosiddetto “canone”) che avrebbe consentito alla «Società Dantesca Italiana» un primo razionale inquadramento e uno sfoltimento della vastissima tradizione. L’enorme lavoro di studi e ricerche di Barbi se non portò a soluzioni definitive, tuttavia, giovò, direttamente o indirettamente, sia nell’allestimento del materiale filologico, sia nell’interpretazione di temi e personaggi, che della lingua e dello stile dell’opera dantesca. Molte intuizioni del nostro filologo avrebbero trovato conferma nei lavori di Giorgio Petrocchi, curatore dell’edizione in cui oggi leggiamo la Divina Commedia.

Nel 1907 maturarono i frutti del suo lavoro decennale di editore critico attraverso la pubblicazione della magistrale edizione della Vita Nuova, cui seguirà nel 1932 una seconda edizione immutata nell’apparato, ma ampliata nel commento. Del 1915 è invece la pubblicazione del volume Studi sul Canzoniere di Dante, preparatorio all’edizione delle Rime, dove, esplorando la trasmissione del Canzoniere dantesco, ci ha consegnato un affresco storico della tradizione della antica lirica italiana. Nel 1921 venne edito, sotto la sua direzione scientifica, il volume complessivo dell’edizione nazionale delle opere dantesche.

Nel 1923 divenne membro della Giunte esecutiva per i testi italiani della Accademia della Crusca. Il filosofo Gentile, allora ministro della Pubblica Istruzione nel primo gabinetto Mussolini, decretò la conclusione del fervente lavoro intorno a Dante durato oltre cinquant’anni e dunque intimò a Barbi di riprendere l’insegnamento. Lo studioso pistoiese a quel punto si sarebbe potuto accontentare del ruolo prestigioso che si era guadagnato, ma «…proprio a questo punto, tutto a un tratto, si fa luce il Barbi più grande: quello che senza deporre la responsabilità delle cure dantesche, assume anche idealmente, quella della filologia italiana tutta quanta, guardando in primo luogo ai capolavori dei classici. La svolta, preparata nel silenzio operoso di tutta un’esistenza, si produsse quando Barbi aveva 67 anni e prese forma di una lettera aperta al direttore di «Pégaso», Ugo Oietti. Il titolo era chiaro e perentorio: Come si pubblicano i nostri classici. È un intervento fondatore, che avrebbe dovuto trovar posto, secondo i voti del Barbi, in un volume composto di saggi, mai uscito, sotto la significativa epigrafe Il mio pessimismo filologico, formula un po’ blasée di una stoica dedizione. Uscì invece, nel 1938, un’altra capitale raccolta, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni.» (G. Gorni, Dante perduto, Torino, Einaudi 1994, pp 68-69). Si tratta di una serie di contributi filologici che, seppur non destinati a sfociare immediatamente nella pubblicazione di edizioni critiche, ne costituiscono la base preparatoria per il lavoro che altri avrebbero poi proseguito. Con il termine “nuova filologia”, Barbi intendeva riferirsi al metodo utilizzato dalla nuova scuola filologica in Italia da contrapporre alle altre dottrine filologiche propugnate altrove e soprattutto in Francia da dom Henri Quentin, che si proponeva di ricostruire la lezione del capostipite e non dell’originale, e da Joseph Bédier, sostenitore del metodo del bon maniscrit, ossia “il migliore” da riprodurre e nel quale introdurvi solo correzioni ovvie e indispensabili, invece di tentare di ricostruire un archetipo illusorio, frutto di una classificazione arbitraria dei manoscritti. Per il nostro filologo il metodo di Lachmann restava fondamentale nella critica del testo. Poteva, però essere migliorato, come fece lui stesso, applicandolo alla recensione di testi medievali e moderni tramandati da una ricca tradizione manoscritta, derivante dall’originale, o vocina ad esso, della quale il medesimo originale, autografo o a stampa, si è conservato. Dimostrò cioè l’esistenza di varianti d’autore, identificate per ricostruire la dinamica del sistema linguistico, stilistico ed ideologico dello scrittore, di tradizioni corrette e di più redazioni originali per cui neppure l’esistenza dell’autografo rende superflua un’edizione critica. Questa metodologia variantistica, per cui non esiste un testo definitivo, è in Barbi attenzione al complesso mondo spirituale dello scrittore sempre in evoluzione, come dimostrano le pagine su Boccaccio, Sacchetti, Guicciardini, Foscolo e Manzoni.

I molti anni trascorsi a Sambuca Pistoiese nella solitudine campestre dell’Appennino toscano spiegano la resistenza di questo studioso a un regime rigoroso di lavoro e di ricerca metodico e tenace durato tutta la sua lunga vita senza soluzione di continuità.