Libri
I due allegri indiani
di Chiara Gulino / 30 maggio
Se siete dei lettori che amate i romanzi tradizionali con una trama sì avvincente ma piuttosto lineare e odiate tutto ciò che esce fuori dagli schemi e fugge qualsiasi tipo di classificazione, allora I due allegri indiani (Adelphi 2011, pp. 297, Euro 19,00) di Juan Rodolfo Wilcock (Buenos Aires 1919 – Lubriano 1978), poeta, scrittore e traduttore argentino, non fa per voi, lettori banali.
Si tratta di un libro, quello appena ripubblicato dalla casa editrice milanese Adelphi a quasi quarant’anni dalla prima edizione del 1973 con la stessa copertina (foto di due transessuali che sgambettano felici, transessuali che avranno una parte nell’opera che lascio scoprire al lettore), di difficile collocazione in una libreria ordinata per generi letterari.
Infatti I due allegri indiani è anche il titolo del romanzo, privo di qualsiasi intreccio narrativo, grottesco, anticipatore della satira demenziale e bizzarro, scritto da uno scribacchino salernitano che, attraverso giochi prismatici d’identità, cambia continuamente nome e residenza, e pubblicato a puntate (trenta) su una rivista settimanale di ippica, «Il Maneggio» («perché stendere un romanzo deve essere un lavoro da cavalli»). Fra un episodio e l’altro de I due allegri indiani troviamo di tutto: lettere di strampalati lettori (perfino uno che dice di essere il “figlio adulterino” di Hitler!), quiz di cultura generale e concorsi a premi, parodie di pubblicità, circolari della società anonima che a un certo punto prende la direzione del romanzo. Quest’ultimo poi è un susseguirsi di sketches esilaranti da avanspettacolo che hanno per protagonisti i due indiani del titolo, Cavallo Alto e Daino Rosso, e non solo. Le trovate narrative sono surreali e visionarie, ideate da una mente labirintica di inesauribile creatività. Amico di Borges, Wilcock ha voluto cimentarsi con l’italiano rivelandosi un vero funambolo della nostra lingua e dimostrando di padroneggialo con grande abilità.
Stabilitosi a Roma dopo la metà degli anni ’50, in fuga dal peronismo, l’autore argentino fu per anni collaboratore di testate come «Tempo presente», «Il Mondo» di Pannunzio, «L’Espresso» e «La Voce Repubblicana». Del nostro paese è stato un critico irriverente: gli “indiani” sono gli italiani visti dalla distanza prospettica dello sguardo straniero come beceri, opportunisti e pieni di vizi. Nelle prime pagine, rispondendo all’annuncio dell’editore della rivista e dovendo presentarsi, lo smargiasso autore del romanzo si vanta di aver prodotto «l’ira di Dio di pezzi di fantasia, foglietti di viaggio e cronaca nera persino su un giornale dell’enigmatico Nord, a pagamento, tutto quanto con il mio noto pseudonimo di “Fanalino di Coda”, più spesso F. di Coda per collaborazioni di alta qualità».
Wilcock ha sempre esercitato in piena libertà quella che chiamava “l’ebbrezza aristocratica del dispiacere”, facendo più volte tremare con i suoi articoli le fondamenta farraginose del nostro establishment letterario. Lo si può vedere anche in una raccolta di suoi scritti critici pubblicata l’anno scorso da Adelphi, Il reato di scrivere.
Pastiche, scherzo letterario, beffa paradossale e cocktail di registri stilistici ( il racconto si camuffa via via da referto autoptico, da feuilleton, da romanzo sentimentale, da western o romanzo d’avventura, etc.), quest’opera di questo importante, ma dimenticato scrittore del nostro Novecento non ha avuto grande successo forse proprio perché è un’aperta irrisione della normalità e si sa che l’eccentricità spaventa sempre un po’ e richiede uno sforzo di comprensione intellettualistica troppo grande per la pigra indole italica.