Libri
Lewis Carroll fotografo
di Francesco Lo Polito / 27 giugno
Questo volume della casa editrice milanese Abscondita, nella sua elegante copertina in nero, è un'autentica gioia per gli occhi. Sfogliando le pagine, con le loro oltre novanta tavole, si resta incantati davanti a una fluidità, una grazia e un humour che ancora oggi lasciano a bocca aperta. Attraverso la sua macchina Lewis Carroll è riuscito a catturare e a preservare istanti di vita che all'occhio sembrano spontanei, colti al volo anziché nel lungo minuto di esposizione richiesto dalla tecnologia del tempo. Un risultato non da poco, per un'epoca in cui non erano immaginabili le nostre macchine digitali iperautomatizzate. Sono ritratti di personaggi famosi e non: foto di familiari e di professori oxfordiani si alternano a quelle di Tennyson e della famosa attrice shakespeariana Ellen Terry. C'è naturalmente anche Alice Liddell, la “vera Alice”, con le sue sorelle e tante, tante bambine. Ma non solo: il volume raccoglie anche quattro scritti sulla fotografia in cui la vena umoristica e la naturale vocazione al nonsense di Carroll tengono banco, sia che si scherzi su come applicare la fotografia al processo di creazione letteraria, sia che si racconti la catastrofica giornata di un fotografo alle prese con i suoi modelli. Insomma, è un libro che piacerà a chi ama la fotografia, e quasi irrinunciabile per chi abbia interesse per questo aspetto del genio artistico dell'autore di Alice. E allora, perché rischia di rendergli un pessimo servizio?
Il problema sta nella scelta fatta nel presentare il materiale. Come prefazione alla raccolta troviamo uno scritto di Gyula Halász, il famoso fotografo, scultore e regista meglio conosciuto con il nome d'arte di Brassaï. L'altra faccia dello specchio, recita il titolo di questo breve saggio, dal sapore inconsapevolmente ironico. In effetti, leggendolo, è come trovarsi insieme ad Alice dall'altra parte dello specchio dove tutto è capovolto, il nero diventa bianco e viceversa. L'analisi inizia bene, e Brassaï coglie nel segno quando evidenzia i pregi artistici della fotografia di Carroll. Purtroppo non riesce a resistere alla tentazione di attingere al profondo pozzo del mito cresciuto attorno allo scrittore, soprattutto quando si tratta di parlare delle sue modelle bambine. Andando avanti nella lettura si scuote il capo più di una volta: non c'è nessun tentativo di inquadrare Carroll nel sistema dei valori artistici del suo tempo, nell'ideologia vittoriana che idolatrava il fanciullo come simbolo di purezza. Ancora una volta si affacciano il mito dell'amore senza speranza per la piccola Alice Liddell e lo stereotipo del pretino anglicano senza una vita, rimasto bloccato psicologicamente nell'infanzia e capace di avere relazioni emotive solo con ragazze prepuberi. La penna di Brassaï è prudente e misurata, e non ha mai il coraggio di scrivere le brutte parole «pedofilo represso», ma il messaggio è implicito, voluto o meno: è nella descrizione delle tecniche di “seduzione” di Carroll per procurarsi le sue giovani modelle, e anche in quella della famosa fotografia di Alice nei panni della piccola mendicante, con il suo vestito strappato, lacerato «come se avesse appena subito uno stupro». La perplessità e l'irritazione sono al culmine quando si arriva alla fine dello scritto e si legge la data: 13 Marzo 1970. Tutto allora diventa più chiaro: è evidente che Brassaï, morto nel 1984, ha scritto il suo articolo in un periodo in cui l'immagine di Carroll era ancora saldamente vincolata al mito e su cui era già caduta la condanna inappellabile di anni di critica psicanalitica, attingendo alle fonti disponibili, poche e quasi tutte di seconda mano. Dovranno passare altri ventisette anni, prima che nasca una nuova scuola di studi e che Lewis Carroll inizi a cedere il passo a Charles Lutwidge Dogdson, con le sue molte amicizie femminili e adulte, la sua vita mondana, il suo desiderio di fama e successo, la sua etica privata divisa tra morale borghese e radicalismo, tra sensualità e spiritualità. Insomma, la strana e affascinante storia di un uomo dell'età vittoriana, epoca fin troppo misogina, che amava il corpo e l'anima delle donne, prigioniero più o meno volontario del suo alter ego letterario e della sua spontanea facilità nell'intrattenere bambini con storie e giochi, l'unico aspetto della sua vita emotiva che, paradossalmente, poteva esibire senza suscitare scandalo nei contemporanei.
Appurata la buona fede di Brassaï nello scrivere il suo saggio, suscita sorpresa che una raccolta così ben curata della fotografia di Carroll sia presentata attraverso un testo chiaramente superato, molto buono quando affronta l'aspetto artistico, ma drammaticamente fuori bersaglio quando presume di voler sondare l'animo di Dogdson e vederlo attraverso gli occhi del Novecento, secolo malato per eccellenza. Peccato, perché sarebbe bastato un piccolo sforzo aggiuntivo per dare conto anche dello stato attuale della critica carrolliana, senza dover per questo rinunciare allo scritto di Brassaï. Chi è a conoscenza di questi recenti sviluppi non avrà particolari problemi nel liberarsi della sovrastruttura artificiosa imposta al volume: altri non saranno così fortunati e rischieranno di restare davvero dall'altra parte dello specchio.