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Rafał Wojaczek. La poesia, il corpo e l’antigrammatica

di Paulina Spiechowicz / 16 settembre

«C’era bisogno della vita, della morte/ C’era bisogno della lirica, bisogno dell’amore,/ C’era bisogno di te e della Regina polacca / […] della vodka e della saliva». Poche, indicative e sintetiche strofe illustrano la poetica di Rafał Wojaczek. In questi quattro versi si cela difatti il suo intento lirico, l’esigenza di una poesia interamente concentrata sui grandi temi della vita, della morte, dell’amore e dell’affanno umano. Tuttavia, sebbene l’oggetto poetico è anche troppo comune, la poesia di Wojaczek si distingue per il modo rude, brutale, certamente stravagante della sua composizione. Il suo è un linguaggio viscerale, scosceso e corporeo. La lirica trasuda fisicità, mentre le parole sono gettate l’una dopo l’altra con forza e impatto immediato. Wojaczek non è un poeta che segue le convenzioni retoriche, benché dietro i suoi eccessi si nasconda una brillante conoscenza della materia. La poesia non è servita con eleganza, accomodata e limata scolasticamente,  ma lascia libero corso al sensualismo lirico, alla seduzione poetica, al corpo nelle sue varie metafore e dimensioni.

Nato a Mikołów il 6 dicembre 1945 e morto solamente ventisette anni dopo a Wrocław, Wojaczek rappresenta la contropartita del Rimbaud polacco. Giovanissimo inizia a scrivere. Giovanissimo inizia anche a bere. Pochi anni dopo è ricoverato in una clinica psichiatrica, dove la sua sensibilità è tacciata di schizofrenia. Nella stessa clinica conosce una donna che diventerà sua moglie e la madre di una figlia. Durerà però solamente sei mesi anche questa relazione, il metro di misura della vita di Wojaczek manifestandosi in un’intensità lacerante, appesa al secondo, legata ad un perenne cronometro. La depressione l’accompagna fino alla fine della sua vita, a cui decide di porre un taglio ingerendo massicce dosi di valium. Non era però il suo primo tentativo, così come testimoniano le sue poesie. La tematica mortifera è difatti ricorrente, celata dai contorni di un desiderio languido, desiderio della carne, dell’elemento erotico che diventa leitmotiv poetico.

Hanno provocato ampio scalpore le poesie di Wojaczek. Sconosciuto in Italia, di cui poco o niente è tradotto, in Polonia rappresenta una figura contrastata, dai contorni violenti, sempre alla ricerca di una rissa notturna nella vita, della veemenza nella poesia. Scandalizzava la sua «grammatica negra», così com’è stata definita la sua scrittura quando egli ancora era in vita. Sconvolgeva la sua composizione aggressiva, velata da una lingua di collisione, alla ricerca dell’espressività tangibile, palpabile, ai confini del materiale. L’aggettivo di pornografico ha altrettanto accompagnato molta critica che, sebbene messa in crisi dalle licenze di un poeta al limite dell’alcolismo, ha comunque accolto di buon grado le due raccolte di poesia uscite tra il 1969 (Stagione) e il 1970 (Un’altra storia). La sua ricezione postuma sottolinea il successo della sua lirica, successo però sempre accompagnato da un alto grado di reticenza intellettuale. Nel 1999, Lech Majewski dedica un film alla figura di questo poeta così controverso. L’interprete stesso è un poeta, Krzysztof Siwczyk. Il film mescola la nostalgia propria alla sensibilità slava con una tendenza all’assurdo tipica della poesia e prosa del XX secolo polacco. Si delinea in tal modo un romanticismo astratto che ben riassume la poetica del suo protagonista, Wojaczek. Per terminare, proponiamo la traduzione di qualche sua lirica.