Flanerí

varie

Intervista a Massimo Maugeri - parte prima

di Sergio Sozi / 10 giugno

 

Massimo Maugeri è uno dei nomi ricorrenti del panorama letterario italiano ormai da qualche anno. E questo, credo, grazie anche a delle evidenti qualità caratteriali dello scrittore catanese, fra le quali spiccano l'equilibrio, l'ostinazione, la costanza e una buona dose di nervi saldi. Perché Maugeri, oltre che scrivere e leggere tanto, dirige – oserei dire – un blog, Letteratitudine, che praticamente è una rivista letteraria aperta ai commentatori. E la direzione, quando si tratti di cose come un litblog realmente democratico, è una forma di potere che logora chi ce l'ha molto piú di chi non ce l'ha (Andreotti docet). Insomma, a dirla tutta, portare avanti senza stipendio Letteratitudine è piú faticoso che stare ai vertici di un quotidiano cartaceo (con lo stipendio). A fare la maggior differenza è che su un quotidiano non bisogna gestire i continui interventi di qualunque lettore, invece in un blog questo è prioritario quanto presentare degli articoli validi. Io la vedo cosí. Come la pensa lui, invece, lo vedrete adesso. Buona lettura.

Caro Massimo, oggi, per cominciare, farò un po' il bastian contrario: perché ti piace Moravia? (gli inglesi, mi confidò il direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Lubiana nel 2004, non lo traducono piú dopo esserci rimasti male con ''L'uomo che guarda'' ed io in questo caso li ammiro molto).

Caro Sergio, altre volte abbiamo discusso di (e su) Moravia e ci siamo simpaticamente e amichevolmente scontrati su Letteratitudine, dal momento che a te il noto scrittore romano non ha mai convinto più di tanto.

Perché mi piace Moravia? Ti dico questo: in generale credo che l'incontro tra uno scrittore e un suo lettore – quando è un incontro che lascia il segno – porta sempre con sé qualcosa di magico, di irripetibile. Magari perché quell'incontro è capitato in un determinato momento, in una data circostanza. In alcuni casi certi incontri letterari sono irripetibili e unici proprio per questa ragione. Credo che sia capitato qualcosa del genere tra me e Moravia.

La prima volta che incontrai lo scrittore romano, avevo circa dodici anni. Quel libro stava lì, nel bel mezzo di uno scaffale centrale della libreria di mio padre. Era una raccolta di racconti. Mentre rispondo a questa tua domanda il libro in questione è qui, accanto a me. Un'edizione rilegata della Bompiani dei primi anni Sessanta. Un libro contemporaneo, dunque… che aveva visto la luce pochi anni prima che io venissi al mondo. Il titolo è di quelli che non si dimenticano: L'automa. Presi in mano il volume pensando, forse, che avesse a che fare con il mondo dei robot… o qualcosa del genere (era l'epoca di Goldrake, Mazinga e compagnia bella). Non conoscevo Moravia, era la prima volta che lo leggevo.

Iniziai a sfogliare il libro, a immergermi nelle storie. Mi piaceva. Nonostante fossi un ragazzino, quelle storie riuscivano a colpirmi… a entrare nel mio immaginario. Fra le tante ce ne fu una che mi colpì in particolare. Te la racconto in breve. C’è un uomo che, giunto nei pressi di casa, – per distrazione – dimentica di scendere dall’autobus. Scende alla fermata successiva, che però è parecchio distante. L’uomo si è trasferito da poco nel quartiere. Non conosce quella zona: gli sembra quasi un altro luogo. Mentre torna indietro, a piedi, scorge una donna bionda. La vede solo di schiena, ma la trova affascinante e decide di seguirla. Si sente così attratto che, a un certo punto, gli viene in mente che per lei sarebbe disposto ad abbandonare persino la moglie e i figli. Più la segue, più l’attrazione cresce. La donna entra nell’androne di un palazzo. Lui continua a seguirla. Solo quando la blocca sulle scale si accorge che è sua moglie e che l’androne dov’era entrato era quello di casa sua. Era bastato che la moglie si tingesse i capelli (era stanca di essere bruna) e che la incontrasse in una zona non conosciuta del quartiere perché lui (l’automa) la scambiasse per un’estranea.

Questo racconto sortì una specie di effetto folgorante nel dodicenne Massimo Maugeri. Com'era possibile che un uomo non riconoscesse la propria moglie? Eppure capii che era possibile. Quella storia mi colpì così tanto che, di recente, ho sentito l'esigenza di citarla nella scrittura del mio racconto Incontro a Porta Pia (all'interno della raccolta da me curata Roma per le strade (Azimut). Il racconto è disponibile in rete, qui: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/roma_per_strade_2_massimo_maugeri220410.html

Da lì in poi, cominciai a leggere Moravia con gusto e interesse.

Molti si stanno dimenticando che sei un romanziere (e per giunta premiato), dunque rinfreschiamo la memoria ai lettori esponendo la tua poetica di fondo e anche, se vuoi, gli argomenti che hai affrontato nella scrittura e/o che vorresti affrontare.

Hai ragione. Il blog Letteratitudine mi ha assorbito molto in questi anni e in tanti mi identificano in maniera quasi esclusiva con esso. Ma io mi sento soprattutto un narratore, e alla scrittura tengo tantissimo. Infatti l'anno prossimo dovrebbe uscire una mia raccolta di racconti. E poi sto revisionando un nuovo romanzo che ho appena finito di scrivere.

Per quanto riguarda gli argomenti affrontati, come sai sono particolarmente attratto dalle problematiche connesse alla crisi d'identità (individuale e collettiva, direi), che cerco di raccontare con una mia impronta.

Come ho avuto modo di dire nell'ambito di un'altra intervista, sono un convinto sostenitore dell’importanza della metafora, anche – e soprattutto – in letteratura. In questo senso, a volte, ho l'impressione di andare controcorrente. Ho l'impressione, cioè, che l’editoria dei nostri giorni persegua una strada diversa, basata su una sorta di nuovo neo-realismo (lasciami passare questa etichetta). Io invece credo sia importante non solo scrivere storie perfettamente ancorate alla realtà, ma anche romanzi che si affidino in un modo o nell’altro alla metafora… e al mito. Perché metafora e mito incidono molto sul nostro immaginario, e inducono in maniera indiretta – ma a volte in maniera più efficace – alla riflessione. In fondo è quello che ho tentato di fare con il romanzo Identità distorte. Intendiamoci… non è che mi prescrivo un compitino da assolvere, quando mi metto di fronte alla pagina bianca. È che istintivamente le mie storie vengono fuori così. Se poi quello che scrivo abbia senso e valore, oppure no – che la mia narrativa sia vendibile, o sia destinata a rimanere fuori dal mercato – non sta a me dirlo. Mi rimetto, come tutti, al giudizio degli addetti ai lavori e dei lettori.

Però, come ho avuto modo di sostenere in altre circostanze, ritengo che uno scrittore abbia il dovere morale di mettere in luce quello che avverte, quello che sente dentro, a prescindere dal fatto che possa essere condivisibile e in linea con l’onda trainante del mercato (e deve farlo senza lamentarsi se poi le proprie storie non trovano lo sbocco sperato). D'altronde credo che chi tenti di scrivere per il mercato abbia perso in partenza. Ti cito un aneddoto che, a suo tempo, mi fece molto riflettere. I protagonisti sono due noti scrittori americani: Don DeLillo, uno dei padri della cosiddetta letteratura postmoderna e un autore più giovane ma già molto conosciuto, Jonathan Franzen. Questi scrive a DeLillo lamentandosi della crisi del romanzo sociale e della difficoltà a trovare lettori. DeLillo gli risponde con una frase che mi è rimasta impressa: “Lo scrittore conduce, non segue. La forza motrice risiede nella sua testa, non nel numero dei lettori.” E ancora: “La scrittura è una forma di libertà personale. Ci libera dall’identità di massa che vediamo formarsi intorno a noi. Alla fine, gli scrittori non scriveranno per diventare gli eroi fuorilegge di una sottocultura, ma soprattutto per salvare se stessi, per sopravvivere come individui.”

Questioni di stile, non di contenuti e significati. Scegli e motiva la tua scelta: Italo Calvino o Vitaliano Brancati?

Anche se ammiro molto il mio conterraneo Vitaliano Brancati, non ho dubbi nello scegliere Italo Calvino. Non ho dubbi perché Calvino è uno dei miei autori preferiti e – a mio avviso – uno dei grandi della letteratura mondiale del Novecento. Un talento poliedrico, una scrittura eclettica, variabile, raffinata, capace di alternare reale e fantastico all'interno di forme narrative di indiscutibile pregio. Amo la trilogia de I nostri Antenati. E amo allo stesso modo Se una notte d'inverno un viaggiatore, un volume che – come ho sostenuto in altre circostanze – vale da solo come un corso di scrittura e di lettura messi insieme. Ritengo preziosi il lascito delle Lezioni americane e la valenza metaforica e metanarrativa de Le città invisibili.

Mi dispiace che alcuni critici e scrittori della nostra generazione (più di uno, per la verità) detestino Calvino. Un autore che, viceversa, (a mio modo di vedere, almeno) deve essere ri-scoperto, rivalutato e reso fruibile alle nuove generazioni di lettori.