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“Monologhi del giorno del giudizio” di Liu Xiaobo
di Vittorio Pessini / 24 ottobre
Una sedia vuota, in attesa di un vincitore che non sarebbe mai arrivato. È questo l’indelebile fotogramma della cerimonia di premiazione del Premio Nobel per la Pace 2010, attribuito all’intellettuale e attivista politico cinese Liu Xiaobo «per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina». Quasi un anno è passato da quel momento, altri Nobel nel frattempo sono stati assegnati, ma l’immagine rimane ancora oggi impressa come un segno tangibile dell’arroganza e dell’arroccamento del governo di Pechino. Liu Xiaobo, condannato nel 2009 a undici anni di detenzione per il reato di incitamento alla sovversione dell’ordine dello Stato vigente, uscirà di prigione il 21 giugno 2020, salvo improbabili sconti di pena.
Questa pubblicazione raccoglie saggi, documenti e poesie che coprono un arco temporale intercorrente tra il 1989 e il 2008, offrendoci l’opportunità di conoscere il pensiero e le battaglie di un intellettuale che sta scontando sulla propria pelle la sua intransigente battaglia nei confronti del Partito Comunista Cinese.
Una parabola che conterrebbe in nuce tutti gli ingredienti per una invettiva senza sfumature, ma è lo stesso Liu Xiaobo a liberare subito il campo da questo equivoco, sottolineando in più punti gli enormi progressi avvenuti nel Paese negli ultimi venti anni, in particolare per quanto riguarda l’incremento dell’aspettativa e della qualità della vita. Tuttavia la discrasia tra la politica di totale liberalizzazione economica avviata dal regime di Deng Xiaoping dopo la strage del 4 giugno 1989 e un controllo statale interno sempre più stretto continua a generare un grande vuoto sul terreno dei diritti umani.
Cosa è infatti un uomo, si chiede Xiaobo, senza libertà, senza democrazia, senza possibilità di espressione?
Il denaro e l’esaltazione di una cultura commerciale basata esclusivamente sul consumismo e sulla ricerca del piacere individuale sono i mezzi utilizzati dal sistema dispotico per prosperare e allargare la sua base. Per continuare a esercitare un controllo spietato nelle mutate condizioni economiche il Partito Comunista Cinese ha sostituito all’ideologia la promessa di soldi, di benessere, di ricchezze materiali. Il Partito è il luogo in cui si hanno maggiori possibilità di guadagni, ed è questo il motivo per il quale ogni anno nuove generazioni finiscono per ingrandirne le fila, attirate dalla possibilità di facili introiti e disposte a calpestare ogni diritto in nome del profitto personale: «Si è passati da un’era rivoluzionaria tutta orientata al potere a un’era del benessere orientata unicamente al denaro, ma il deserto culturale e morale ha mantenuto un’intrinseca continuità». “Cinismo” è la parola che sembra meglio incarnare l’odierna condizione della società cinese: gli stessi funzionari che nel privato ridicolizzano l’apparato totalitario costituiscono la parte attiva di quello stesso apparato, che non paga mai per le colpe e gli errori commessi e che non sente nessun obbligo verso un popolo dal quale non dipende la sua elezione. Un cinismo che rischia di avviluppare in una spirale l’intera società, abituata a subire croniche ingiustizie e limitazioni della propria libertà, che per sopravvivere (cosa molto diversa, dice Xiaobo, dal vivere in maniera dignitosa) sta anestetizzando e smarrendo la propria coscienza – come dimostra il caso recente, l’ultimo di una lunga serie di situazioni simili, di Yueye, la bambina cinese di due anni investita da un camion e lasciata a lungo ai bordi della strada nell’indifferenza generale.
Anche gli intellettuali sono diventati parte attiva di questo ingranaggio: «Capitale, potere e intellettuali hanno stretto un’alleanza per il profitto, in cui formano un corpo unico che ha permesso agli intellettuali di entrare rapidamente nelle liste degli uomini più ricchi del paese». Xiaobo insiste su questo aspetto nella consapevolezza che quando anche gli intellettuali abdicano al proprio ruolo di coscienza civile di una Nazione, per prostituirsi al potente di turno, si percepisce tutta la drammaticità della situazione storico-politica vigente. Si pensi, su questo aspetto, allo scrittore russo Michail Bulgakov, che nel suo capolavoro Il Maestro e Margherita ha messo alla berlina il potere stalinista quasi esclusivamente attraverso una satira sugli uomini di cultura, su quella intellighenzia asservita al potere dominante che impera in determinati momenti storici – e questa unica focalizzazione gli ha consentito di rappresentare l’essenza stessa dello stalinismo senza la necessità di nominarne mai gli aspetti più universalmente conosciuti: campi di concentramento, purghe, omicidi di massa –.
Il manifesto Carta 08, redatto da Xiaobo insieme ad altri promotori e ispirato alla Charta 77 dei dissidenti cecoslovacchi contro il comunismo, contiene la richiesta della concessione di elementi formalmente contenuti nella Costituzione della Repubblica popolare: libertà, diritti umani, uguaglianza, repubblicanesimo, democrazia e costituzionalismo. Per Xiaobo la Riforma avviata nell’ultimo ventennio del secolo non deve più rimanere “monca”, e questo potrà avvenire soltanto attraverso un allargamento della base della società civile: una reale modifica sarà visibile solo nel momento in cui questa stessa società inizierà a prendere compiutamente coscienza della necessità di unirsi, di aggregarsi, di ribellarsi ai soprusi senza temerne le possibili conseguenze. Le premesse in atto sono incoraggianti, soprattutto per i fermenti che stanno muovendo le campagne, dove le proteste dei contadini cinesi per difendere il diritto alla proprietà delle terre hanno colto più volte di sorpresa il regime. La progressiva diffusione dei mezzi di comunicazione – e soprattutto di Internet – favorirà sempre di più l’aggiramento della censura imposta dal Partito unico, e la globalizzazione, che fino a oggi ha rappresentato un dono per il governo di Pechino in materia di sviluppo e di crescita economica, potrà forse trasformarsi in un boomerang per lo stesso governo sul fronte dei diritti umani. La stessa paura dei funzionari, mascherata da plateali atti di forza, è sintomo dell’inadeguatezza della classe politica dirigente nel fronteggiare crescenti proteste che, seppur non ancora coordinate, iniziano a dare i primi frutti.
La consapevolezza dell’inevitabilità di questi cambiamenti, insieme a una pietas cristiana capace di rinunciare a ogni pretesa di vendetta e di sopportare il peso della propria croce seguendo l’esempio di Gesù Cristo, di Gandhi, di Martin Luther King, sta consentendo a Liu Xiaobo di tollerare da anni una persecuzione senza sosta: «Gli investigatori che mi hanno controllato, i poliziotti che mi hanno arrestato e interrogato, i pubblici ministeri che mi hanno processato e i giudici che mi hanno condannato non sono miei nemici. Anche se non posso accettare che mi abbiate inquisito, arrestato, processato e condannato, ho comunque rispetto della vostra professione e della vostra persona». Il sogno di Xiaobo di un amore capace di sconfiggere l’odio con la sola arma della ragione e la sua lotta in difesa di una Cina democratica possono proseguire anche dietro le sbarre della prigione, se altri nel frattempo sapranno farsi portavoce di queste istanze soltanto momentaneamente messe a tacere, ma destinate a non rimanere a lungo nell’oblio di una Nazione il cui cammino verso un futuro diverso è ormai avviato.
(Liu Xiaobo, Monologhi del giorno del giudizio, trad. di Luca Stirpe e Valeria Varriano, Mondadori, 2011, pp. 360, euro 20)