Varia
DigitaLife 2
di Jacopo Benedetti / 7 dicembre
C’è tempo fino all’11 dicembre per visitare, presso l’ex GIL a Trastevere, l’esposizione Digitalife 2, dedicata per l’appunto all’arte digitale nelle sue più diverse declinazioni.
Si tratta di una mostra che colpisce anzitutto (almeno il sottoscritto) per l’altissimo livello delle opere proposte, delle quali nessuna o quasi nessuna (pur variando il grado di apprezzamento da un caso all’altro) sembra poter lasciare indifferenti. E non mi riferisco solo (nè tanto) ai lavori delle personalità forse più “altisonanti” ospitate quali Carsten Nicolai (da molti meglio conosciuto, per le sue produzioni musicali, come Alva Noto), Christian Marclay (il vincitore della Biennale d’arte veneziana di quest’anno) o Marina Abramovic – della gigantografia di quest’ultima, anzi, si sarebbe potuto verosimilmente fare a meno, salvo magari che per questioni “pubblicitarie” – quanto a quelli di altri artisti presenti la cui creatività e originalità non ha nulla da invidiare a quella dei più noti colleghi.
Dopo un suggestivo ologramma, firmato Santasangre e The Pool Factory, raffigurante una sorta di pesce palla i cui movimenti dipendono da un dispositivo (consegnato ai visitatori all’ingresso) che traccia le traiettorie di ogni utente all’interno dell’intero spazio espositivo, si arriva a una sala buia dove, su una grande parete, è proiettato un video dell’artista visivo/coreografo/danzatore Saburo Teshigawara intitolato Double District – titolo che rimanda anzitutto, secondo le parole degli stessi ideatori, ai due «distretti visivi, dell’occhio destro e dell’occhio sinistro», che il cervello umano ricompone in un’immagine che rappresenta la realtà e che è essa stessa (almeno a livello di “senso comune”) scambiata usualmente e forse ingenuamente per la cosiddetta “realtà esterna”.
Si tratta di una performance visibile con occhiali 3D in cui due danzatori, lo stesso Teshigawara e Key Miyata, si muovono in uno spazio scenico totalmente astratto (tutto nero) in modo da combinare elementi di estremo realismo – l’altissima definizione dell’immagine e la resa incredibilmente verosimile della distanza o del senso di prossimità danno l’illusione di assistere a uno spettacolo di soggetti “in carne ed ossa” – e altri profondamente artificiali, come l’ambiente nel quale i protagonisti agiscono quasi fossero sospesi, le dimensioni (molto grandi quando si avvicinano) degli stessi o il fatto di vederli, di tanto in tanto, scomparire all’istante per poi ricomparire altrettanto fulmineamente in tutt’altro punto del palcoscenico virtuale.
Accompagnati da sobrie sonorità elettroniche, i due “attori” si cimentano in elegantissime figure e movenze in grado di fondere, in una quasi perfetta armonia e continuità, passaggi pur caratterizzati, gli uni da un’estrema roboticità, spigolosità e innaturalezza, gli altri da una delicata plasticità e fluidità, per una gestualità che nell’insieme ricorda, anche e soprattutto in virtù degli aspetti contrastanti che abbiamo appena evidenziato, stili marziali “leggeri” quali l’ormai abbastanza noto Tai Chi.
Altro lavoro particolarmente degno di nota è quello del venticinquenne di Brighton Felix Thorn, le cui Felix’s Machines sono spassose sculture dal sapore barocco costituite assemblando pezzi di vari strumenti e suonate gestendone i movimenti meccanici (attuati per mezzo di solenoidi, motori e molle) a partire da un computer.
Lo spettatore può allora accomodarsi su una delle sedie disposte di fronte alla “formazione fantasma” (che consta di un corredo di una decina di luccicanti congegni tra i quali due simil-xilofoni disposti simmetricamente, una grancassa e altre percussioni e idiofoni) e assistere all’esecuzione di brani in cui appunto un segnale elettronico (ed ecco il legame apparentemente poco lampante col mondo digitale) viene trasposto in output acustico prodotto mediante azioni meccaniche integralmente a vista. Ogni strumento possiede inoltre un led di diverso colore, anch’esso controllato da un computer, che si accende quando lo strumento stesso entra in gioco e che, oltre a facilitare così la comprensione delle singole parti (e quindi del brano nel suo insieme), permette anche di godere di un’atmosferica composizione di luci che si alternano e si rispondono nell’oscurità dello spazio circostante.
Non meno coinvolgente è anche l’istallazione The Ge-Dhir journey ideata da BCAA (tre professionisti specializzati in prodotti innovativi e servizi integrati di motion capture, audio, animazioni, comunicazione, sistemi web e multimediali), una struttura luminescente e poligonale fissata ad una parete e in grado di emanare sul muro tutt’intorno e sul pavimento immagini – dalla resa fortemente psichedelica e fluttuante e dalle tinte acide che mutano periodicamente – con le quali lo spettatore può in qualche modo dialogare, modificandone l’articolazione coi propri spostamenti. Ciò è reso possibile da una particolare applicazione del Motion capture, un processo di identificazione, cattura e analisi del moto che in questo caso si avvale della tecnica 3DOM, grazie alla quale il sistema rileva la posizione del visitatore nello spazio, il suo modello scheletrico e i suoi movimenti, a cui corrisponderanno eventi interattivi come, ad esempio, proiezioni in tempo reale della sagoma di chi si pone all’interno dell’area che delimita l’opera o ancora bagliori e strisce lucenti che la attraversano ridisegnandone di continuo l’aspetto.
È quasi d’obbligo, poi, menzionare Quayola, video-artista romano trasferitosi a Londra , la cui opera, Strata 4#, è appunto la quarta tappa di un progetto consistente nella rielaborazione digitale di fotografie in altissima risoluzione di importanti opere artistiche o architettoniche del passato.
Dopo la basilica di San Pietro (Strata 1#), le vetrate vivacemente colorate della chiesa di Nôtre Dame a Parigi (Strata 2#)e il Grand Théâtre di Bordeaux (Strata 3#), questa volta Quayola decide di lavorare sui grandi dipinti a soggetto sacro di Rubens e Van Dyck conservati presso il Palais de Beaux Arts di Lille. Su due enormi schermi rettangolari sviluppantisi verticalmente e disposti l’uno di fianco all’altro, si alternano le immagini di diverse opere della classicità alle quali viene applicata una sorta di “destrutturazione cubista”, ottenuta mediante un software sviluppato ad hoc che genera complesse geometrie a partire dall’analisi delle caratteristiche formali dei dipinti in questione.
I quadri dei famosi maestri del passato costituiscono un po’ lo sfondo piatto sul quale si innesta un brulichio di formazioni dall’aspetto quasi minerale che, percorrendolo freneticamente e spostandosi di zona in zona, ne lasciano in certi punti visibile l’originaria bidimensionalità nel mentre che conferiscono ad altri (quelli su cui appunto si va a intervenire con tale tecnologia) una resa profondamente volumetrica e poliedrica.
Oltre al fortissimo impatto estetico, questi tasselli emergenti e perpetuamente in fieri – che per altri versi potrebbero essere assimilati a una sorta di origami ottenuti producendo pieghe virtuali sulla tela – adempiono anche una funzione eminentemente didascalica: i colori e la luminosità delle porzioni così evidenziate rispecchiano fedelmente le differenze di tonalità e di luce del dipinto sottostante e permettono, perciò, di sostituire alla confusione e compenetrazione dei costituenti della tavolozza iniziale una soluzione grafica d’estrema chiarezza che s’ impone quindi come rivelatrice dell’altrimenti poco decifrabile processo di realizzazione tecnica dell’opera di partenza esaminata.
Il titolo rimanda probabilmente al continuo dialogo fra passato e presente di cui il video si fa portavoce, nonché alle molteplici stratificazioni di cui esso stesso sembra esser composto – con le tessere “sporgenti” che, rincorrendosi e sovrapponendosi, mutano incessantemente di posizione, forma e dimensioni – e che ne fanno una creazione particolarmente raffinata, vivace e persino pulsante, quasi vivente di vita propria; tale vitalità è infine sottolineata da effetti sonori che, intervenendo su un sottofondo di soavi armonie, rievocano anch’essi – con i minuti e gli innumerevoli crepitii e scricchiolii avvertibili – un’ininterrotta attività di sottile rimescolamento, formicolante ridefinizione e reinvenzione.
Vale la pena di nominare infine l’artista nipponica Ryoichi Kurokawa, vincitrice del Golden Nica del concorso Ars Electronica nella categoria Digital Music and Sound Art.
La sua opera, Rheo: 5 Horizons, è una sorta di scultura audiovisuale costituita da cinque schermi rettangolari allineati l’uno con l’altro e rappresentanti, come il titolo stesso suggerisce, cinque diverse finestre su cinque distinti orizzonti, orizzonti vertiginosamente in evoluzione, trasformantisi di continuo in sempre ulteriori orizzonti.
A questi cinque televisori ultrapiatti sono associati cinque speaker multicanale e ciascun video è, a sua volta, sincronizzato con un audio specifico.
Su ogni schermo passano riprese video di paesaggi in alta definizione e materiale di sintesi, il tutto orchestrato in una composizione globale estremamente dinamica, aggraziata, seducente e incisiva.
Le immagini dei diversi scorci catturati e giustapposti sono spesso trasmesse a velocità elevatissime (tanto che a tratti è possibile distinguerle nitidamente solo stoppando a ripetizione il video: provare per credere) e solo di rado sono apprezzabili nella loro più realistica veste; ad esse vengono infatti spesso sostituite “semplificazioni” grafiche che ne trasformano la precisione fotografica in scarne strutture colorate, su sfondo nero, composte di linee dalle tinte elettriche che si intersecano nei più disparati modi e che creano sempre nuove forme col loro movimento infinitamente ondeggiante e coi loro repentini mutamenti e spostamenti, tornando solo sporadicamente a rievocare, con maggiore o minore approssimazione, il paesaggio originario.
L’articolazione e interconnessione di ciò che ogni orizzonte prospetta dà vita a un lavoro decisamente multiforme in cui ogni singolo apparato audio-video è insieme indipendente e inestricabilmente legato a ogni altro: all’improvviso lampo abbagliante prodotto da un monitor corrisponde, in perfetta sincronia, l’oscurarsi di altri; oppure le figure visibili sui diversi schermi, apparentemente sconnesse, arrivano a conversare fino a ricomporre un’ unica e più o meno vivida immagine, o ancora i movimenti (e i suoni) dell’una sembrano agire causalmente sulle modificazioni dell’altra.
L’audio, tutto giocato sull’evocativa commistione di rumori naturali ed inserti elettronici (e in questo dunque pienamente in linea col concept generale), esaspera poi il senso di enigmaticità di un’opera che sembrerebbe parlarci del confine ambiguo e labile – se non totalmente evanescente – tra classicità e innovazione, naturalezza e artificialità, realtà e virtualità, chiarezza e confusione, semplicità e complessità, molteplicità e unità, percezione sensoriale e astrazione, visione e ascolto.
DigitaLife 2
Ex GIL, Largo Ascianghi 5, Roma
Fino all'11 dicembre