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Altre Narratività

«Pelé was good, Maradona maybe better, but George… George Best»

di Francesco Vannutelli / 29 gennaio

L’Aston Martin è parcheggiata di traverso sul vialetto. Il muso è affondato nella siepe di cinta, le fiancate screziate di fango. Passandoci accanto, Dougie scorge due bottiglie vuote ai piedi del sedile del passeggero. Gin, riconosce l’etichetta rossa. Il mattino di giugno gli regala un sole caldo sul volto nonostante siano solo le otto e trenta di mattina. Sale i tre gradini che conducono alla porta d’ingresso e la apre con la sua copia delle chiavi. Si è fatto un duplicato senza che George se ne accorgesse, dopo che più di una volta aveva dovuto aspettare delle intere mezz’ore prima che qualcuno sentisse il campanello da dentro.
All’interno della villetta regnano la confusione e il silenzio. Bicchieri sporchi si alternano a bottiglie vuote sin dall’ingresso. Doug scavalca una sedia rovesciata e entra nel salone. Anche lì conta non sa quanti bicchieri. Una bottiglia di champagne ribaltata sul pavimento e abbandonata a se stessa ha creato una pozza sul tappeto persiano in cui affonda la scarpa imprecando tra i denti. Sul divano di pelle nera vede squillare un paio di mutandine rosa da donna. Doug tira un sospiro e scuote la grossa testa con fare sconsolato. «George, ci sei?», inizia a dire a voce alta dal centro della sala. Si avvia verso le scale ripetendo «Geordie» a ogni gradino. Al piano di sopra trova la porta della camera da letto accostata. La spinge piano con una mano. Sa già cosa troverà lì dentro.
Sul grande letto matrimoniale, una donna nuda e bionda dorme con il capo appoggiato sul petto villoso di George, che è immobile al centro del letto, con la bocca spalancata. I due sembrano in coma. Tutto intorno, sulla cassettiera di mogano, sui comodini, ci sono altri bicchieri macchiati di rossetto. La poltrona di fronte al letto è piena di vestiti da uomo e da donna buttati uno sopra l’altro. D’un tratto, una donna di colore dai grossi seni si solleva a mezzo busto dall’altra metà del letto e incrocia lo sguardo di Doug per un breve istante, prima di rimettersi giù borbottando un «Ma che ci fai in piedi? Torna a letto tesoro».
Doug lascia la stanza rosso di imbarazzo, biascicando una frase di scuse a mezza bocca. Prima di uscire accende la radio del grosso impianto stereo accanto alla porta e si mette in corridoio ad aspettare. Funziona. La musica si ferma dopo pochi secondi e la porta si apre di nuovo. George è in piedi davanti a lui con addosso solo un paio di slip bianchi. Ha l’aria stanca, gli occhi gonfi e le labbra secche e screpolate.
«Che cazzo di ore sono, Dougie?», gli chiede in un rantolo. Il suo alito sa di fine del mondo e distillati.
«Buongiorno anche a te, Geordie».
«Sì, va bene, buongiorno. Ora mi dici che cazzo di ore sono?»
«Sono le nove, più o meno».
«Le nove?», George alza la voce, sgrana gli occhi incredulo e si porta la mano alla tempia destra come a cercare di fermare la vertigine che lo ha colto per aver parlato troppo forte, «Gesù santissimo, Doug, mi spieghi cosa vuoi da me alle nove di mattina?»
«Credimi, io da te non voglio niente, ma hai un impegno importante stamattina, e mi hai chiesto di venirti a prendere».
«Ma vaffanculo, me ne torno a letto. La stagione è finita, non ci sono neanche gli allenamenti».
«Geordie, c’è la conferenza stampa per la Coppa dei Campioni, non fare il cretino».
«Ma non me ne frega niente, io vado a dormire!», fa per rientrare nella stanza, ma Doug lo afferra per un braccio. Perché deve andare sempre così?, pensa tra sé.
Ogni volta che c’è un impegno importante ci mette mezz’ora a convincere George ad andarci. Non si regola più: beve troppo, fa tardi la sera, viene fotografato con troppe donne diverse, con cappelli impossibili, su macchine sempre nuove e lucenti, mentre inaugura boutique di moda o partecipa a feste esclusive a Manchester e a Londra.
La sera prima c’era stata una festa per la vittoria in Coppa dei Campioni. C’erano tutti: Bobby, Denis, Foulkes, Kidd. Persino mister Busby aveva fatto la sua comparsa.
George aveva iniziato a dare spettacolo da subito. Prima si era messo a ballare a centro pista, coinvolgendo tutte le ragazze che lo guardavano con curiosità e desiderio, poi aveva insistito per fare il numero della cascata di champagne. Si era fatto portare una dozzina di coppe di cristallo e un paio di bottiglie di Dom Pérignon del 1964, aveva disposto i bicchieri uno sopra l’altro a creare una specie di piramide e poi aveva iniziato a versare il vino nel bicchiere più in alto, lasciandolo colare negli altri in una spumeggiante fontana alcolica. Tutti i presenti erano rimasti a bocca aperta, applaudendo divertiti e ridendo. Aveva continuato a bere per un po’, circondato da persone che lo abbracciavano, raccontando storie sulle partite e i gol che aveva fatto, poi era andato via senza dire niente a nessuno. Era stato visto in diversi locali a ballare fin quasi all’orario di chiusura.
Più che la sua naturale vanità e la voglia di riscossa per la povertà infantile, più che la sua bellezza e il suo carisma invincibile, erano stati l’attenzione dei media e l’affetto quasi maniacale del pubblico a trasformarlo in poco tempo in quella specie di one-man show anche lontano dai campi, in quell’attrazione pubblica a trecentosessanta gradi.
A George non importava essere famoso, non è il motivo per cui era voluto diventare un calciatore. Questo Doug lo sa bene. Lo conosce dai tempi di Belfast, quando giocava nelle squadrette locali prima che venisse chiamato a Manchester da un telegramma che lo definiva «genio» a soli quindici anni. Doug sa che ancora adesso l’unica cosa che importa a George è giocare a calcio, divertirsi e divertire pubblico e compagni. È ancora il ragazzino che a diciassette anni, dopo l’esordio ufficiale all’Old Trafford, voleva rimanere in campo alla fine della partita a giocare ancora, lo stesso che faceva impazzire i coach di Belfast perché non si fermava mai, inseguiva sempre il pallone e non lo passava ai compagni, saltando sempre tutti gli avversari prima di fare gol.
È George, però, a non ricordarselo più. Ora sembra preferire le copertine delle riviste, i vestiti firmati e le modelle vogliose. Il calcio non è più la sua ragione di vita ma solo un mezzo per essere famoso e avere tutto il resto. Doug ha iniziato a percepire il cambiamento prima ancora che George se ne accorgesse. È il giocatore più forte in Europa, meglio di Eusebio sicuramente. Forse è il migliore al mondo, non è solo lui a dirlo, ma qualcosa è cambiato e lui vuole aiutarlo, come faceva quando erano bambini, sotto la neve a Belfast, quando rimanevano fuori con il pallone al buio e Geordie provava le sue finte su di lui, sul suo paziente amico Dougie.
«Avanti George, non fare il ragazzino», gli dice continuando a tenergli stretto il braccio.
«Lasciami Doug, non è un problema tuo».
«Sì che lo è, invece. Dai, ora facciamo una doccia e andiamo».
«Ma facciamo cosa, andiamo dove?», George si divincola con rabbia dalla presa dell’amico, «che cosa vuoi da me, Doug? Che cosa volete tutti da me? Chi sei tu per dirmi cosa fare? Sei solo un parassita che dovrebbe baciarmi i tacchetti. Un ciccione che non sa fare niente nella vita, che ha solo la fortuna di avere uno come me che lo aiuta. Questo sei, Doug, e sai cos’altro sei? Sei un invidioso, uno che si vorrebbe scopare le mie donne, uno che vorrebbe giocare a calcio come gioco io, che vorrebbe stare al mio posto sulle riviste. Sei una nullità, un fallito».
I due si guardano in silenzio in mezzo al corridoio. Doug è immobile, le parole di George sembrano non averlo toccato. Il petto magro di Geordie si gonfia e si svuota come un mantice, l’aria sibila uscendo dalle sue narici. Suda.
Senza staccargli gli occhi di dosso, Doug gli tira uno schiaffo forte e secco sulla guancia, facendogli perdere l’equilibrio, poi gli si avventa contro e lo solleva da terra con una presa rugbistica. Doug è molto in carne, effettivamente, mentre George ha un fisico da adolescente, tonico e guizzante, ma magro e minuto. Lo trascina verso il bagno, mentre l’altro si dimena calciando l’aria e urlandogli insulti. Lo scaraventa dentro la vasca e apre l’acqua fredda. La bocca di George si spalanca in un grido acuto di dolore mentre il caschetto di capelli neri gli si incolla al viso.
«Basta! Basta! Ho capito, chiudi! Chiudi!»
Doug ferma il getto e si siede a bordo vasca. I due si guardano e si ritrovano a sorridere.
«Sei un coglione», dice Doug.
«Lo so», risponde George, «scusami, non volevo, non lo pensavo».
«Lo so, lascia stare. Adesso fatti la doccia e andiamo».
«Perché lo fai, Doug?»
«Cosa?»
«Perché mi sopporti? Perché mi aiuti?»
«Perché non posso fare altrimenti, amico mio. Non pensarci adesso. È tardi e manca poco all’inizio della conferenza».
«Senza di te non sarei niente».
«Non dire idiozie, tu sei George Best, il più grande calciatore al mondo. Lo ha detto anche Pelé, te lo ricordi?»
«Amico mio, se Pelé dice qualcosa io non me la dimentico comunque, figurati quando parla di me!», dice scoppiando a ridere e facendo ridere anche Doug.
«Non ti devi dimenticare chi sei, George. Non ti dimenticare la palla di stracci nei vicoli di Belfast, non ti dimenticare la faccia che hanno fatto quando ti hanno visto giocare nel Glentoran, sette anni fa, quelli dello United. Gesù, eri solo un bambino e ti guardavano come fossi Stanley Matthews. Lascia stare la moda, i locali, le feste. Pensa a giocare. Sei il più forte, sarai il più forte, per sempre, e sarai il calciatore più famoso del mondo, e i bambini diranno: “Io da grande voglio giocare come George Best!” e vincerai tutti i trofei possibili, e quando saranno finiti ne creeranno di nuovi, apposta per te».
«Tu starai con me, vero Dougie?»
«Ogni volta che avrai bisogno di me, io ci sarò, ma devi farcela da solo. Non posso continuare a recuperarti in giro per Manchester, a pagare i conti dei ristoranti al tuo posto, a promettere a mister Busby che non arriverai più in ritardo agli allenamenti. Torna quello che eri e non avrai più bisogno di me».
George è ancora seduto dentro la vasca, guarda fisso davanti a sé un punto imprecisato sulle piastrelle della parete di fronte. Non parla. Doug si alza, gli dà una pacca sulla spalla, «Ti aspetto in macchina», gli dice. Il calciatore rimane immobile ancora un po’, poi si alza, si sfila le mutande e apre la doccia. Calda questa volta.
L’acqua lava via il sonno arretrato e l’alcol che ancora gli tenevano prigioniero il cervello. Si sente meglio. Mentre si insapona sente un rumore avvicinarsi alla porta. Sono i piedi nudi della ragazza bionda che ora lo sta guardando appoggiata allo stipite. Non indossa nulla se non un paio di grossi orecchini ad anello che devono esserle rimasti addosso dalla notte prima. Gli sorride maliziosa.
«Con chi stavi parlando?», gli domanda guardandosi allo specchio mentre con le mani cerca di aggiustarsi i capelli sconvolti dalla nottata. Lo sguardo di George scivola sul suo giovane sedere, perfettamente rotondo.
«Stavo… Niente, lascia stare, non è importante».
«Ma ti ho sentito parlare, c’era qualcuno?»
George non risponde, distoglie lo sguardo, chiude gli occhi e si abbandona sotto il getto d’acqua. Quando li riapre la ragazza lo sta guardando con aria perplessa. Il volto del ragazzo di Belfast si apre lentamente in un sorriso. Porge una mano verso la ragazza fuori dalla vasca che si avvicina con passi lenti.
«Ti va di entrare?»
Nel 1968 George Best conquistò la Coppa dei Campioni con il Manchester United vincendo contro il Benfica per 4 a 1. Best contribuì a quella vittoria con una rete. Fu il primo successo internazionale del club inglese. Lo stesso anno Best si aggiudicò la classifica dei cannonieri del campionato inglese segnando 28 marcature. Al termine della stagione gli venne assegnato il Pallone d’Oro. Aveva 22 anni.
Famoso soprattutto come ala destra, poteva giocare indifferentemente in ogni ruolo d’attacco.
La sua storia calcistica è legata a doppio filo alla maglia rossa dei Red Devils, per i quali giocò per undici anni, dal ’63 al ’74, dopo essere stato prelevato, poco più che quindicenne, dall’Irlanda del Nord. Dopo averlo visto giocare in una partita locale, l’osservatore dello United a Belfast inviò un telegramma al manager Matt Busby a Manchester con su scritto solo: «Credo di aver trovato un genio».
Con Denis Law e Bobby Charlton ha formato uno dei tridenti d’attacco più forti di tutti i tempi.
Divenne celebre al di fuori della cronaca sportiva per la vita mondana ai limiti della dissolutezza. Venne ribattezzato il «Quinto Beatle».

Nel 2002 fu sottoposto a un trapianto di fegato resosi necessario per i danni causati all’organismo dall’abuso di bevande alcoliche.
Nel 2005 venne ricoverato al Cromwell Hospital di Londra per un infezione renale. Non aveva smesso di bere dopo il trapianto.
Chiese di essere fotografato sul letto di morte, con la pelle gialla e gli occhi cerchiati di rosso, i tubi per respirare e mangiare infilati direttamente nella trachea. Era ridotto a poco più di un mucchio d’ossa. La foto di Best morente venne pubblicata su diversi giornali britannici con un messaggio che lui stesso aveva dettato: «Don’t die like me».
Morì di lì a poco, dopo che l’infezione si estese ai polmoni e compromise il funzionamento di tutti i principali organi. Aveva 59 anni.
Doug non è mai esistito.