Musica
“Between the Times and the Tides” di Lee Ranaldo
di Valerio Torreggiani / 23 marzo
Torna sulla scena discografica internazionale Lee Ranaldo.
Formatosi artisticamente nell’entourage avanguardistico newyorchese di Glenn Branca, dal quale ha sicuramente ereditato una certa tendenza alla dissonanza, deve la sua notorietà al fatto di essere una delle quattro teste pensanti dei Sonic Youth, rinnovatori instancabili dell’esplorazione scientifica degli effetti alienanti dovuti alle contemporanee metropoli post-industriali.
Il Lee Ranaldo che troviamo in questo suo nuovo Between the Times and the Tides (Matador, 2012) è però un uomo di una certa età, con capelli bianchi e occhiali da sole, che sfoglia annoiato gli album di famiglia, le foto ingiallite dal tempo, proprio mentre la “gioventù sonica” è sul punto di implodere seguendo vie parallele alla separazione della coppia Moore-Gordon. Seduto con la sua birra ghiacciata, Ranaldo immagina come suonerebbe un suo proprio mondo pop-rock. Assistiamo quindi al tentativo di svincolarsi dalle esperienze precedenti, per avvicinarsi – sempre a suo modo sia ben chiaro – alle recenti evoluzioni del nuovo cantautorato americano, richiamandosi quindi alle sue radici rock ’n roll che, a quanto pare, hanno sempre resistito dietro la figura di estremo sperimentatore sonoro.
Troviamo, ad accompagnarlo in questo che potremmo chiamare un esperimento al contrario – ovvero il tentativo di uno sperimentatore di professione di fare qualcosa di più normalizzato – vecchi compagni di viaggio, come il batterista Steve Shelley, già con lui nei Sonic Youth dal 1986 in poi, e il bassista Jim O’Rourke, assiduo collaboratore in fase di mixaggio e produzione del medesimo gruppo, accanto a nuove leve, come Nels Cline, il chitarrista artefice delle stratificazioni sonore degli Wilco, e John Medeski, tastierista poliedrico proveniente dai fangosi territori del jazz-fusion del formidabile trio Medeski, Martin & Wood.
Come si diceva il disco sterza prepotentemente verso atmosfere melodiche più consone, quasi canoniche, che risultano molto vicine, pur mantenendo le peculiarità dovute al singolare e riconoscibilissimo approccio chitarristico-armonico di Ranaldo, alle felici esperienze di recupero delle forme tradizionali del rock a stelle e strisce che stanno caratterizzando la scena contemporanea statunitense. Non è quindi assolutamente un disco da scariche adrenaliniche che vivono di tensioni nervose metropolitane. L’ansia orrorifica che permeava gli esordi dei Sonic Youth, ma anche i lavori solisti di Ranaldo, si dissolve al sole del nuovo millennio: mettendo da parte Il manuale per l’uso improprio della strumentazione rock, Ranaldo ci mostra il suo lato pulito, quasi benpensante. Dieci tracce da viaggio, per un coast to coast sognante da New York alla California.
L’ascolto si fa quindi esile. L’orecchio, adagiato sulla morbidezza degli arrangiamenti freme nell’agilità dei brani, scopre influenze forse sorprendenti, come il canto alla Micheal Stipe, voce dei neo-disciolti R.E.M, su “Lost (Plane T Nice)”, o i refrain chitarristici di “Waiting on a Dream”, costruiti su complesse trame armoniche nelle quali si riconosce l’inconfondibile cifra stilistica di matrice Wilco, sempre al limite del manierismo. Troviamo poi linee melodiche sempre molto semplici, lineari, ma dense e umide, di quell’umidità che appiccica la maglietta alla pelle e i pensieri alla testa – la strofa di “Off the Wall” ne è un esempio lampante, la ascolti e non va più via dalla testa –, accostate a venature vocali che diventano a tratti tipicamente blues (“Hammer Blows”), a ricordare che anche Lee Ranaldo, come tutti forse negli Stati Uniti, proviene da monumenti come Neil Young, Bill Crosby e Bob Dylan.
Ma vent’anni di musica non si cancellano in un batter d’occhio, e questo è un disco che, pur avendo tutte le influenze e le caratteristiche appena elencate, suona anche tipicamente Sonic Youth senza pur tuttavia esserlo mai veramente. Un ossimoro che è forse voluto, incomprensibile razionalmente, ma che ha comunque una sua logica genealogica ben precisa. Between the Times and the Tides si inserisce infatti a pieno titolo nel processo di normalizzazione musicale e di avvicinamento progressivo alla forma canzone rock tradizionale che i Sonic Youth avevano intrapreso già nei primi anni novanta, più precisamente con Dirty (DGC, 1992), e con il quale veniva seguito un metodo compositivo che inseriva elementi avanguardistici all’interno di forme tradizionali, nell’intento di stravolgerle e alienarle da sé stesse. Nel tempo si è però concretizzato un processo per il quale questi elementi estranei, che potremmo definire extra-rock, che erano funzionali allo straniamento della forma canzone e alla sua destabilizzazione interna, sono andati scemando avvicinando lo stile compositivo di Moore e compagni a una musica che, per quanto permeata di un tipico sound Sonic Youth sempre molto riconoscibile, suonava sempre più consona, sempre più imbrigliata nelle strette maglie del modello strofa-ritornello-strofa. E il punto centrale è proprio questo: l’ultimo lavoro solista di Ranaldo si inserisce senza soluzione di continuità in un percorso che era già quindi in atto da almeno un ventennio e che va dal sopra citato Dirty, fino agli ultimi Rather Ripped e The Eternal.
Mancando la debilitazione scientifica delle forme proprie della musica pop-rock, ed eliminando del tutto le sperimentazioni sonore sullo strumento – pensiamo all’uso dei cacciaviti o dei colli di bottiglia branditi con violenza sulla chitarra – quel che rimane sono delle semplici e normalissime canzoni, che sono però splendide canzoni, forti di una scrittura ottima coadiuvata da arrangiamenti semplici ma di grande impatto. Il tutto suonato da musicisti di lunga carriera, che ricorrono a tutti i trucchi del mestiere per ottenere un disco che si fa ascoltare dall’inizio alla fine con grande leggerezza.
(Lee Ranaldo, Between the Times and the Tides, Matador, 2012)