Cinema
[RFF9] La memoria al cinema
di Francesco Vannutelli / 19 ottobre
Sono film che non hanno niente in comune, i primi film visti al Festival Internazionale del Film di Roma, ma su cui è possibile tendere un filo unico per riunirli e raccoglierli. Quel filo è la memoria e i rapporti che ci si possono costruire.
Memoria di ogni tipo, sia essa personale come in Still Alice, presentato nella categoria Gala, sociale e collettiva come in We Are Young, We Are Strong, o il frutto di un’alterazione di un intervento esterno come in The Lies of the Victors, entrambi in concorso nella sezione Cinema d’oggi. Sono indagini che si delineano in forme diverse, ricerche sul senso del tempo che è stato e che rischia di essere perso.
Nello statunitense Still Alice di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, Julianne Moore interpreta una docente di linguistica della Columbia University innamorata del proprio lavoro e della propria famiglia, di suo marito e dei suoi tre figli ormai adulti. Un giorno, durante una conferenza, si dimentica una parola proprio mentre sta spiegando il rapporto tra impulsi neuronali e sviluppo del linguaggio. Poco tempo dopo si perde mentre è fuori a correre, non riconosce i posti dove è sempre stata. Si spaventa, va dal medico e scopre che ha una forma precoce di Alzheimer. È un trauma, come è normale che sia, per una donna ancora giovane e in perfetta forma.
Il punto forte di Still Alice, tratto dal romanzo di Lisa Genova del 2009 pubblicato in Italia da Piemme con il titolo Perdersi, è nella non convenzionalità del personaggio malato. Non solo la Alice interpretata da una enorme, strepitosa, Julianne Moore non è una donna anziana come la malattia lascerebbe supporre (e come era stata, ad esempio, Julie Christie in quell’altro bellissimo film sulla malattia che era Away From Her del 2006 – tratto da Alice Munro), ma è addirittura una ricercatrice del linguaggio, del rapporto tra pensiero e parola, l’autrice di studi come Dal neurone al nome. È proprio questa posizione di assoluta competenza che getta uno sguardo ulteriore sul dissolvimento del ricordo, su quel perdersi di cui parla Alice in una conferenza quando ormai è malata e rassegnata. C’è tutta la potenza di un film struggente, della ricerca di una resistenza alla fuga della memoria. Alice non vuole rassegnarsi a smettere di essere quello che è. Riesce a essere ironica sulla propria malattia, fino a un certo punto sembra quasi usarla come velata arma di ricatto nei confronti dei suoi familiari, ma sa che si sta perdendo, e non lo può accettare. Senza insistere sul pedale del sentimento, Glatzer e Westmoreland costruiscono una famiglia che sta per essere distrutta con pochi tratti, mostrando quel tanto che basta per descrivere rapporti (del figlio Hunter Parrish con il padre Alec Baldwin, bravissimo, umanissimo) e rivalità secolari (le due figlie Kate Bosworth e Kristen Stewart, emancipata per sempre dalla saga di Twilight e di nuovo attrice). Non c’è ostentazione del dolore, non c’è ricerca del pathos. C’è il quotidiano che sta per essere spazzato via dalla memoria, ed è mostrato benissimo.
La memoria che indaga invece il tedesco We Are Young. We Are Strong (Wir Sind Jung. Wir Sind Stark) del figlio di rifugiati afghani Burhan Qurbani, è quella collettiva di una società che ignora, o accantona, il proprio passato per ricadere negli stessi errori. All’origine c’è un fatto realmente accaduto: la violenza di gruppo che sconvolse la città di Rostock la notte del 24 agosto 1992, quando un gruppo di giovani, prevalentemente di ispirazione neo-nazista, prese d’assedio e diede alle fiamme un comprensorio popolare, Lichtenhagen, la Casa dei girasoli, abitato prevalentemente da rifugiati politici provenienti da varie parti d’Europa – Romania, Bulgaria – e dal Vietnam tra gli applausi di quasi tremila persone. Qurbani, che ha scritto il film con Martin Behnke, concentra il racconto su Stefan, giovane appartenente alla borghesia e figlio di un politico locale che sceglie la compagnia di un gruppo di estrema destra per vincere la noia.
I protagonisti di We Are Young. We Are Strong hanno un rapporto paradossale e contraddittorio, sul piano politico, con il passato. A soli due anni dalla riunificazione delle due Germanie (Rostock era a est), rimpiangono il conforto dell’organizzazione comunista, in cui magari mancavano le alternative, ma non il lavoro. È di fronte alla povertà e alla indeterminatezza del paese da ricostruire che parte la rabbia contro gli immigrati che arrivano a pretendere come parassiti quello che dovrebbe essere solo dei tedeschi. È qui che lo sguardo alla memoria nazionale si rivolge ancora più indietro, al nazismo, al razzismo aprioristico della difesa del simile contro il diverso. Il ricordo recente del comunismo, quello più antico del nazismo, non bastano per esorcizzare gli errori. La violenza è sempre possibile di fronte alla presunta ingiustizia. Il capro espiatorio è sempre l’espediente più comodo.
Qurbani prepara la violenza dividendo il film in capitoli orari, avvicinandosi all’ora X seguendo sempre Stefan e la vita della comunità vietnamita, tra speranze di integrazione e paura. Sceglie un potente bianco e nero che diventa colore solo quando l’assedio è iniziato, muove la macchina da presa con innovativo talento, fa riflettere sul presente (di razzismo, al giorno d’oggi, ce n’è quanto se ne vuole, in ogni parte d’Europa) guardando al passato e si interroga, nella scena finale, sul futuro che si forma.
È invece una memoria alterata quella di The Lies of the Victors (Die Lügen der Sieger, da una poesia di Lawrence Ferlinghetti: «La storia è fatta delle menzogne dei vincitori, ma non riusciresti ad indovinarlo dalle copertine dei libri di testo») di Christoph Hochhäusler. Il giornalista d’inchiesta Fabian Groys, diabetico dissoluto dedito ai dadi, indaga sull’apparente suicidio di un ex militare che si è gettato nella gabbia dei leoni allo zoo. Ad aiutarlo c’è una giovane tirocinante, Nadja Sloman, con cui finisce per intrattenere una relazione sentimentale. Quando i due confezionano il loro migliore articolo, che gli vale la prima pagina del settimanale per cui lavorano, Fabian inizia a sospettare che non tutte le informazioni che hanno raccolto siano autentiche. E ha ragione, perché l’indagine è stata manipolata e indirizzata sin dall’inizio da qualcuno.
Hochhäusler, che scrive anche la sceneggiatura, parla di un passato che non esiste e che è stato costruito appositamente per ingannare Groys e Sloman per pilotare un voto politico. La memoria su cui si concentra è quella creata dai poteri forti per ottenere nuove verità e conseguenze favorevoli. I due giornalisti scandagliano un mondo che è stato costruito per loro, parlano con vedove che non esistono, vedono foto che non sono mai state scattate.
Il tentativo di fare del (grande) cinema giornalistico guardando ai modelli statunitensi (come Tutti gli uomini del presidente o Diritto di cronaca) non riesce a Hochhäusler, che procede confuso senza riuscire a portare a unità i vari momenti dell’indagine. Rimane però il valore della riflessione su cosa sia realmente autentico di quello che mostrano i media, di quale sia la vera influenza di poteri sotterranei che muovono tutto, dall’ informazione alla politica, creando un presente, e un passato, che non esistono.