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Gli effetti di “Gomorra” al cinema
di Francesco Vannutelli / 24 settembre
Lunedì 22 settembre Gomorra – La serie ha fatto il suo debutto al cinema in un evento che si ripeterà altre volte, a tre episodi alla volta. Dal libro al film, poi dal libro alla televisione e di nuovo al cinema, quindi. Dopo i risultati eclatanti dalla messa in onda su Sky Atlantic, con uno share medio tra il 2 e il 3%, impensabile per una pay tv, la serie prodotta da Sky, in collaborazione con Fandango, Cattleya, La 7 e la tedesca Beta Film, è stata portata con successo al Toronto Film Festival, ha incassato cinque premi al Roma Fiction Fest ed è stata venduta in oltre cinquanta paesi arrivando in mercati prestigiosi come quello statunitense, dove la Weinstein Company sta pensando di realizzare una versione locale di Gomorrah.
Ora, considerati i risultati ottenuti, ha senso pensare di portare al cinema una serie di successo? Ha senso introdurre un prodotto pensato e realizzato per la televisione in un altro medium, sfruttare la serialità per portare spettatori al cinema? È chiaro, Sky e i suoi soci puntano tutto sulla creazione dell’evento per trascinare in sala quanti più spettatori possibile, con un’operazione analoga a quella compiuta da Lucky Red redistribuendo il catalogo di Hayao Miyazaki solo per poche date, e a prezzo maggiorato, o a quanto fatto periodicamente con classici del cinema popolare come Ritorno al futuro o i film di Sergio Leone.
La riflessione si sposta su un altro livello: ha senso in Italia, vedendo i risultati degli ultimi anni, portare la televisione al cinema? Ha senso, per il mercato italiano, continuare a guardare al cinema come principale canale di destinazione?
Prendiamo dei dati numerici, molto semplici. Il fenomeno cinematografico della passata stagione, quel Sole a catinelle di Gennaro Nunziante con Checco Zalone, ha incassato qualcosa di più di cinquanta milioni di euro, infrangendo record su record, per un totale di otto milioni di spettatori. Il secondo incasso della stagione, il cartoon Frozen – Il regno di ghiaccio, è fermo a più di diciannove milioni di euro registrati, con circa tre milioni di biglietti venduti.
Prendiamo un po’ di numeri della televisione. Lunedì 15 settembre è andata in onda su Rai Uno la replica del Commissario Montalbano tratta da uno dei romanzi di Andrea Camilleri, Il gioco degli specchi. Ha totalizzato quasi sei milioni di spettatori risultando il programma più visto del cosiddetto prime time. Quando lo stesso film tv era andato in onda per la prima volta nell’aprile 2013, gli ascolti erano stati vicini ai dieci milioni fissando un nuovo record per la serie. La media per le prime tv dei film del commissario di Vigata è superiore ai nove milioni di spettatori, le repliche stazionano sempre intorno ai quattro e mezzo/cinque.
Non è solo il fenomeno Montalbano. Giunta alla sua nona stagione, ad esempio, la serie dedicata alle avventure del prete detective interpretato da Terence Hill, Don Matteo, sempre su Rai Uno, continua a registrare ascolti medi superiori agli otto milioni di spettatori.
La tv, quindi, attira un pubblico nettamente superiore al cinema. Zalone è stato un fenomeno unico, per di più; il suo incasso record rappresenta un’anomalia nel panorama italiano, a cui corrisponde invece il successo medio di un film televisivo di Rai Uno del lunedì sera.
Se si prendono i dati relativi agli incassi e al numero di biglietti staccati dei film italiani al cinema nel 2014, ci si rende conto di come la televisione attiri fette di pubblico nettamente superiori alla media cinematografica. Scendendo nel box office al secondo miglior risultato italiano in classifica (e si arriva alla sesta piazza), si trova Un boss in salotto di Luca Miniero, con circa dodici milioni di incasso per qualcosa di più di un milione e mezzo di biglietti strappati, ben al di sotto quindi di quello che è ritenuto il successo medio televisivo.
Si può obiettare in vari modi sul confronto tra dati tv e cinema. La televisione, ad esempio, ha dalla sua la dimensione domestica, la passività della visione (non devi, necessariamente, scegliere cosa vedere e quando) e la sensazione di gratuità, ma i prodotti televisivi godono ormai di un trattamento di favore anche in fase di produzione, non solo da parte degli spettatori. «È semplice capire la differenza tra televisione e cinema», ha detto Pupi Avati, «se a Roma vedi un set sul lungotevere, conta i camion parcheggiati. Se ce n’è uno solo è cinema, se sono almeno tre è televisione». Avati lo sa bene. Dopo tanto cinema è tornato nel 2011 a realizzare un progetto per la televisione, Rai ancora una volta: la serie in sei puntate (seicento minuti complessivi) Un matrimonio, con a disposizione un budget di circa otto milioni di euro, nettamente superiore alla media a disposizione per il cinema. Stando ai dati forniti dal ministero per i beni e le attività culturali e dall’Anica, nel 2013 il budget medio per un film interamente prodotto in Italia è stato di 1,7 milioni di euro, in calo di centomilaeuro rispetto all’anno precedente. Ma la media è sperequata, perché nel panorama cinematografico sono le produzioni a basso costo a prevalere, mentre pochi titoli, principalmente di natura commerciale e da distribuire nel periodo natalizio (tra cui ancora Sole a catinelle, costato la cifra record di otto milioni di euro) contribuiscono a innalzare la media. Per lo stesso periodo, la Rai ha investito in film televisivi quasi 200 milioni di euro, con un costo medio di 600.000 euro per realizzare un’ora di un episodio di una serie tv.
A fronte di una relativa parità di spesa, il prodotto televisivo conserva un ritorno economico maggiore rispetto all’esportazione di titoli cinematografici. Il commissario Montalbano, ancora, ha mercato in tutta Europa, oltre che in America Latina e negli Stati Uniti, al punto che la compagnia aerea Ryan Air ha inaugurato delle linee internazionali per raggiungere più facilmente Ragusa e visitare i luoghi usati come location (e proprio le location sono ora oggetto di scontro tra Rai e Regione Sicilia), mentre l’ultimo premio Oscar italiano, La grande bellezza, ha incassato nei cinema di tutto il mondo solo 21 milioni di dollari (di cui nove provenienti dal mercato italiano). Al momento del primo passaggio televisivo su Canale 5, all’indomani della vittoria della statuetta, il film di Sorrentino ha coinvolto invece una media di dieci milioni di spettatori.
C’è un’anomalia che salta all’occhio osservando questi dati, che va oltre la fredda precisione dei numeri. I prodotti televisivi italiani, soprattutto quelli delle televisioni cosiddette generaliste, incontrano un enorme successo di pubblico ma hanno una capacità praticamente minima di influire in alcun modo la cultura popolare, di creare un fenomeno di discussione e condivisione che renda l’oggetto mediatico memorabile al di là del consumo. In sintesi: la proposta televisiva italiana non è in grado di replicare il successo di quella statunitense. E con successo non si intende il dato numerico degli spettatori quanto l’impronta che il prodotto lascia. Perché, a osservare ancora una volta i semplici numeri, il tv show di maggior successo degli ultimi anni negli Stati Uniti è The Big Bang Theory del network CBS, con ascolti medi di quasi venti milioni di spettatori a episodio. Spostandosi sulla televisione via cavo, The Walking Dead del canale AMC si piazza al primo posto con un dato di circa sedici milioni. Quello che rende il mercato televisivo USA completamente diverso da quello italiano, è che nel confronto con il box office cinematografico risulta nettamente sconfitto. Il maggiore incasso del cinema nel 2014, finora, è Guardiani della galassia, con più di trecento milioni di dollari di incasso per un totale di circa trenta milioni di spettatori. Continuando a osservare la top tensi scopre che tutti i titoli presenti hanno una media di spettatori superiore ai risultati di The Big Bang Theory.
Eppure, appunto, le serie tv made in USA sono capaci di lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo ben maggiore rispetto ai prodotti italiani, che in proporzione riscuotono un successo di pubblico nettamente superiore (per concludere con i numeri, The Big Bang Theory ha uno share medio compreso tra il 15 e il 17%, l’ultima stagione di Don Matteo si è attestata su una media compresa tra il 28 e il 30%).
Nel mercato italiano si arriva al paradosso. True Detective, la serie evento HBO della passata stagione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson, è già un fenomeno da noi prima ancora della messa in onda su Sky Atlantic del prossimo ottobre. Lo è grazie allo streaming illegale, ovviamente, ma quello che va sottolineato è come una serie che deve ancora andare in onda sia data come già per acquisita dal pubblico italiano anche dal lato della distribuzione. Così, Mondadori rimanda in stampa il primo romanzo dell’autore della serie, Nic Pizzolatto, con un bollino che riconduce lo scrittore alla serie; Rai Due manda in onda la parodia Du Detective realizzata dal gruppo The Pills, dando per scontato che lo spettatore conosca già non solo la serie, ma anche le sue dinamiche interne, i suoi dettagli. Paradossalmente, si riconosce pubblicamente la conoscenza di un prodotto che non può ancora essere stato fruito in Italia se non per vie illegali (o attraverso l’acquisto del cofanetto dvd dagli Stati Uniti, vabbé).
Questo perché True Detective fa già parte della cultura anche del nostro paese, è stato oggetto di articoli a profusione sulla sua qualità assoluta, o paraculaggine, prima ancora che venisse trasmesso, questo perché le serie statunitensi (e un discorso simile si può fare, infatti, andando indietro nel tempo con Game of Thrones, Breaking Bad, The Walking Dead, o con How I Met Your Mother, la cui ultima puntata ha deluso, e fatto discutere, anche il pubblico italiano che ancora non conosce la data della messa in onda del primo episodio dell’ultima stagione) sono capaci di catalizzare l’attenzione del pubblico giovane, di rimbalzare al di fuori del mezzo televisivo e creare fenomeni culturali multimediali che si spostano sulla rete, sui social network e da lì conoscono la strada per invadere nuovamente i mezzi tradizionali.
Ora, in Italia prodotti di questa portata è riuscita a crearli solamente Sky, finora. Romanzo Criminale e Gomorra hanno stabilito degli nuovi standard non solo per la qualità della realizzazione ma anche per l’impatto che hanno avuto sull’opinione pubblica. In entrambi i casi è riuscita l’operazione di dare nuovo slancio a un materiale che aveva già avuto una vita cinematografica, oltreché letteraria, e di amplificarne la portata, creando quel fenomeno di discussione, imitazione e parodia che è lo standard dell’offerta televisiva statunitense.
Tornando quindi alla domanda iniziale, ha senso la scelta di Sky di proporre al cinema, in eventi speciali, Gomorra? Certo, essendo il primo mercato di destinazione della serie una tv satellitare la fetta di pubblico ufficiale raggiungibile è stata sicuramente limitata rispetto al potenziale di Rai o Mediaset (e infatti i dati sono circa di un decimo dello share di un prime time di successo di Rai Uno). È però Sky stesso ad aver offerto metodi alternativi per la fruizione del programma, attraverso la registrazione o le visioni on demand sul decoder o tramite internet, per non parlare, ancora una volta, delle infinite opportunità per le visioni pirata sui siti di streaming e download.
Al dato della rilevazione Auditel, quindi, va aggiunta una cospicua fetta di pubblico differito o digitale che non ha seguito la serie in televisione e al momento della messa in onda.
Il cinema conserva il fascino antico dell’evento, dell’uscire di casa, della dimensione mondana e partecipata di un numero di spettatori che assistono assieme a una rappresentazione. Ma nella logica dei freddi numeri, lontano dalla poesia del buio della sala, il cinema ha perso, in Italia, ormai da anni la guerra contro la televisione. Saranno solamente i numeri, a questo punto, a poter dire se l’operazione Gomorra avrà un senso.