Libri
“Le luci di Pointe-Noire”
di Alain Mabanckou
di Giulia Usai / 13 ottobre
Quanto pesano i ricordi? Quelli di Pointe-Noire più di quanto sembri. Dopo ventitré anni di assenza, Alain Mabanckou torna nella sua città natale per presenziare a una serie di conferenze dell’Institut Français, e lo fa da scrittore affermato, dopo aver dato eco internazionale a Pointe-Noire nel best-seller Domani avrò vent’anni. Giorno dopo giorno, perciò, stila qualche pagina a caldo sulle impressioni lasciate dal ritornare al proprio passato. Ma se guardarsi indietro non è cosa facile, ancor meno lo è rimettere piede in un luogo con il quale si è sempre rimandato l’incontro, intimoriti all’idea di realizzare chi si è diventati.
Partito con una borsa di studio per studiare legge a Parigi, Alain Mabanckou ha assecondato la sua vocazione per la scrittura, diventando negli ultimi anni un personaggio di spicco del panorama culturale francofono, e meritandosi un posto tra le cinquanta personalità africane più importanti al mondo nella classifica stilata dalla rivista Jeune Afrique nel 2014. Eppure in Congo, adducendo pretesti e posticipando, Mabanckou non era mai ritornato, sino al viaggio che è preludio di questo libro.
Ecco perché Le luci di Pointe-Noire (66thand2nd, 2014) è un atto di disarmo totale, un’operazione di onestà estrema verso il pubblico, un’autoanalisi sentimentale e non troppo lucida: l’autore sceglie di scalfire la parete che aveva innalzato tra il suo Io attuale e quello originario, e lo fa consegnando in tempo reale le sue sensazioni al lettore, spogliandosi completamente. Se i ricordi d’infanzia di Domani avrò vent’anni erano stati manipolati con il distacco che si riserva alle cose lontane, quelle ormai relegate in uno spazio mentale dove gli angoli più spigolosi sono smussati e le immagini si fanno sfocate, gli stessi ricordi, ne Le luci di Pointe-Noire, devono scontrarsi con la loro proiezione reale.
Il liceo che ha cambiato nome, il cinema trasformato in chiesa pentecostale, la casa d’infanzia, i parenti defunti e quelli nati troppo recentemente per far parte della memoria: la vecchia e la nuova Pointe-Noire si sovrappongono nella prospettiva dello scrittore, che cerca di far combaciare la sua rappresentazione mentale della città a quella attuale, curioso ma cauto nella necessità di riempire un ventennio di mancanze.
L’operazione che Mabanckou compie lascia trasparire una dolcezza disarmante, dolorosa anche. La scrittura è malinconica, ma concede spazi di ironia e fotografa nitidamente luoghi e abitanti della sua città affacciata sull’Atlantico. Il tono dell’autore è quello del narratore navigato, che con ritmo da cantastorie racconta di sé e dei personaggi che ne hanno segnato i primi anni di vita con tale scorrevolezza da elevare la sua storia a uno statuto universale, a un mito sulla conoscenza di sé che deve passare inevitabilmente per l’infanzia, per quanto si tenti di sfuggirle. L’infanzia e le origini, l’eterno dilemma. Dopotutto, come la madre dell’autore era solita dirgli, «L’acqua calda non dimentica mai di essere stata fredda», e a certi confronti non si sfugge.
(Alain Mabanckou, Le luci di Pointe-Noire, trad. di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, 66thand2nd, pp. 256, euro 17)