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Libri

“Vita in famiglia”
di Akhil Sharma

Come sopravvivere, se tutto intorno a te va in pezzi e sei solo un bambino?

di Cristiana Saporito / 25 marzo

David Schearl è ancora un fagotto di carne quando sbuca a New York. I suoi anni pesano solo in braccio alla madre e lui mugugna nel vento i suoi bisogni ancestrali. Francie Nolan invece è più grande.

Quanto basta per sorseggiare i raggi obliqui del cortile e pascolare sul cemento del suo quartiere opaco, in cerca di altri occhi e di conchiglie di stagnola. È lungo il sentiero fino a Broadway e sono tanti i graffi prima di tornare a casa. Non si conoscono, né lo faranno mai. Sono inquilini dello stesso tempo e della stessa città. Ma abitano storie parallele, incorniciate da due titoli, Chiamalo sonno e Un albero cresce a Brooklyn.

Impareranno presto cosa vuol dire essere stranieri. Ma in parte già lo sanno. Il loro destino è in quel sangue lontano, che per molti resta indigesto.

Tanti anni e grattacieli dopo,  nel ’78, a New York spunta anche Ajay, protagonista del secondo romanzo di Akhil Sharma Vita in famiglia (Einaudi, 2015). Sono in quattro a lasciare l’India, le sue strade terrose e i nembi d’incenso. Il padre trova fortuna in America e a madre e figli non rimane che accodarsi. Un volo per l’Altro Mondo, il Nuovo, il Migliore. E un biglietto che è già una promessa.

Non è facile espiantarsi dagli odori di sempre, da una lingua bevuta dal seno, ma quello è il Paese in cui potranno davvero sorridere, conquistando piaceri e ricchezze impensabili. Cominciando dalla moquette e dai rubinetti di acqua calda. Confidano in Birju, il fratello maggiore, così brillante da irradiare tutti gli altri col suo futuro da medico già in tasca. «Con Birju si aveva l’impressione che fosse già connesso a un mondo più vasto. Quando esprimeva un’opinione, era come quando sentendo un annuncio alla radio uno pensa automaticamente che sia vero, di qualunque cosa si tratti».

Ma tra lui e la scuola s’interpone una piscina. Un salto sgarbato e tre minuti scollati dal resto. Tre minuti ubriachi di cloro, in cui Birju sprofonda, non riemerge, non respira.

Non torna più. Perché quello che sbava in clinica e sputa il purè, non è più Birju. È una creatura vegetale che impregna le lenzuola, mentre la madre impreca e il padre si alcolizza. Nel mezzo c’è Ajay, adolescente emarginato da tutto quel dolore.

Era Birju la salvezza, la speranza di rinascita. Lui è solo un ingombro parlante, un marmocchio che ama leggere e che eccelle negli studi, ma mai abbastanza, mai quanto Birju. Che giganteggia su di lui malgrado l’incidente, malgrado lo sguardo annacquato e quel corpo spalmabile. Perché quello che Birju avrebbe potuto essere varrà sempre più di quello che Ajay potrà mai diventare.

Tutto il romanzo è il diario di un’assenza. Che egemonizza giornate, preghiere, aspettative. E soprattutto è il diario di un ragazzo sullo sfondo, che è nato secondo e rimarrà tale, nonostante gli sforzi, i voti pregevoli e tutta un’intera esistenza alle porte.

Ajay ha un disperato bisogno di reagire, di tossire quel male al di là della gola. Prova a esternalo con i compagni di classe, ma la sua sembra a tutti una nenia surreale, la filastrocca epica di un fratello sfortunato che prima di cadere era un supereroe. Un lamento ossessivo che non pesca ossigeno e quindi lo sottrae.

Ajay viene schernito e poi messo all’angolo ed è così che continuerà a sentirsi, ammutinando ogni raro frammento di gioia. Costringendosi a soffrire perché col disagio ha più confidenza.

Ed è feroce con loro la comunità indiana, pronta a idolatrare la madre di Ajay per la sua abnegazione, a chiederle di benedire i propri figli e poi, appena appreso dell’alcolismo del padre, altrettanto capace di vaporizzarsi, di rimuovere il prestigio di quell’adorazione. Ajay dovrà destreggiarsi tra sarabande di ostacoli: la maligna ignoranza dei suoi “simili”, la diffidenza degli altri, l’indifferenza della sua famiglia.

E allora, per accordarsi un’occasione e lasciare una sola finestra socchiusa, comincerà a scrivere, a rastrellare dettagli per restituirli ad un ordine nuovo.

Così come ha fatto Sharma, che ha impiegato anni per tracciare la corrente su cui nuotasse il suo vissuto, per canalizzarlo, per bonificare la rabbia e farne parola, risorsa, energia. Con schiettezza e lucidità, con la stessa incisione chirurgica di chi asporta dei punti di sutura. Avendo prima visto quella pelle sanguinare.

Mi piace immaginare che stiano tutti insieme quei ragazzini adottati da New York durante la sua Storia. David, Francie, Ajay, Vaclav e Lena (aspiranti maghi di Cose da salvare in caso d’incendio) e poi tutti quei piccoli volti migranti che hanno un nome al di là di un romanzo. Che giochino ancora senza chiedersi niente, senza sapere chi sia più vecchio o magari più povero. Che sfreccino al parco, pestando le foglie, acchiappandosi le maglie, scongiurando la pioggia come si fa con gli incubi, finché qualcuno leggerà di loro e chiamandoli forte, li costringerà a voltarsi.

(Akhil Sharma, Vita in famiglia, trad. di Anna Nadotti, Einaudi, pp. 178, euro 19)

LA CRITICA - VOTO 8/10

Il ritratto di una mancanza. Akhil Sharma torna con un romanzo autobiografico livido e onesto, che inchioda il dolore e lo osserva da più angolazioni. Secco e crudele come sa essere la vita reale.