Libri
“Gli scaduti”
di Livia Ravera
Il racconto di un futuro distopico ma possibile
di Cristiana Saporito / 15 aprile
La vecchiaia uccide più della morte. O almeno così pare. Sicuramente non si accontenta di una volta soltanto; rosicchia quanto può, fingendosi discreta, labile, un fiumiciattolo di crepe senza troppe aspirazioni. E poi presenta il conto, cifrato intorno agli occhi o nelle analisi del sangue.
Sarà per questo che ci piace la plastica, migliore amica dell’uomo molto più di ogni labrador.
Resistente, atemporale, implementabile. Condensata nelle creme o nelle protesi mammarie. Sopra e sotto pelle, per non lasciarci mai, per farci sentire un po’ più immortali.
Protagonista del nuovo romanzo di Lidia Ravera è la vecchiaia. Ma non quella rocambolesca e brillante di Jonas Jonasson nel suo sarcastico Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve o quella eversiva e sgangherata di Fabio Bartolomei nel suo La banda degli invisibili. Qui non c’è niente da ridere.
Qui è la vecchiaia ad essere bandita. Vietata, abrasiva, come un delitto collettivo.
Qui gli anziani non ordiscono attentati, non corteggiano portiere. Qui vengono cortesemente accompagnati all’uscita. Qui sono soltanto Gli scaduti (Bompiani, 2015).
L’autrice plasma una società scattante, un futuro efficiente e ottimizzato in cui il potere non è più di un’enclave ingrigita. A governare sono i TQ, trenta-quarantenni, ripieni del fulgore di un corpo ancora grato, ancora gentile se sputato dallo specchio. L’esistenza umana è ostaggio passivo del suo calendario. Entro i 25 anni bisogna essere madri, a rigor di legge, perché l’utero avvizzito non rende un buon servizio; dai trenta ai quaranta si salta, si corre, s’insegue il massimo possibile, per tracannarne i frutti fino ai sessanta. Quando scocca il gong. La campana del ritiro.
I non più giovani abbandonano il mestiere, la casa, la famiglia per dirigersi altrove, per incarnare la dimensione del riposo. Per scorporarsi da tutto l’apparato di affetti e funzioni che li ha decretati in vita. «Meno crape grigie, curve cifotiche, occhiali spessi, pance flaccide e seni cadenti. […] Si era parlato di deportazione, ma sottovoce e soltanto da parte degli over cinquantacinque, che comunque non facevano opinione. Non più. Nessuno sembrava rimpiangerli. I molto vecchi. […] Cosa c’è di più naturale della crescente debolezza, della progressiva disaffezione per le cose materiali, o intellettuali, che colpisce chi ha vissuto sette o addirittura otto decadi?».
A inframmettersi tra la norma e il suo compimento, però, c’è sempre il singolo. Il singolo in questione si chiama Umberto Delgado, alto dirigente avvezzo al comando. Dispensava carisma lui, coordinava pareri, pilotava energie. E adesso si ritrova deposto, come un invito alla noia. Appoggiato nel suo lussuoso giaciglio termale, in mezzo ad altri ex potenti consegnati alla poltrona. Anche lui, come tutti, ha dovuto congedarsi. Soprattutto da sua moglie, tanto intelligente da non voler capire, da indossare prima un comodo distacco e poi un grembiule di rivolta. Umberto ed Elisabetta decidono di opporsi. Sia prima che dopo.
Se «il grande disordine» aveva incentivato la stagnazione degli anziani, il forziere paludato di un dominio esclusivo per uomini attempati, «il Partito Unico» ha chiesto di «stare dentro il rinnovamento, di interpretarlo e ratificarlo». A un popolo esausto il sogno si vende facilmente e in poco tempo lo si tramuta in un regime, riscuotendo in fretta la tassa di entusiasmo.
L’era dei giovani si è rifatta il trucco e quella che Lidia Ravera tratteggia è una dittatura della giovinezza, che premia lo status e non l’individuo. Non conta l’essere, ma la scadenza incisa, la data intagliata su ogni etichetta. Poi giunge il macero, la rottamazione che non si pronuncia, per non sembrare aggressivi.
Laddove “aggressivi” si traduce “sinceri”.
L’unica forza che può scompigliare il troppo ordine è il legame affettivo, l’eversione dirompente dell’amore che impone di sperare, di essere migliori. Quello tra Umberto ed Elisabetta e quello con Matteo, il figlio in ascesa non ancora consacrato, ancora di se stesso, ancora capace di assaporare il dubbio.
Per questo l’anziano va isolato, perché una monade vecchia è ancora più fragile, più manipolabile, perché nel mondo nuovo, smagliante e potenziato si è sempre più soli nella propria community. Liquefatti in compagnie amniotiche che ci accarezzano soltanto con un clic.
Per questo i bar somigliano a un bancomat, talmente intelligente da erogare il servizio senza bisogno di persone, talmente svuotato da reputare la parola un dolcificante decisamente calorico e perciò non ammesso.
Siamo lontani dal nostro orizzonte? In parte anche parecchio. In parte siamo ancora un Paese di zavorre, transenne e naftalina. Di terre recintate gonfie di privilegiati, di generazioni graziate da anni bulimici al cospetto di altre che non possono crescere.
Siamo il Paese salvato dalle pensioni che restano (sempre di meno), mentre chi lavora lo fa troppo o troppo poco. Lo fa male e senza obiettivi che non siano l’affitto o la fine del mese.
In parte la fame del nuovo si è rovesciata in un altro governo che della “rottamazione” ha fatto un vessillo.
Il Premier è un quasi ragazzo che maneggia social network più dei decreti legge e noi ceniamo amoreggiando con l’Ipad e non con chi ci ha invitato al ristorante.
Ma cavalcare gli estremi porta sempre a cadere. Gli scaduti ce lo conferma in pieno. Iperbole distopica, sfida attraente a pensare il futuro e la sua destinazione. Il finale forse arriva un po’ di corsa, ma il romanzo è scritto con abilità, con la raffinatezza del gioco letterario, del dramma possibile di una società che ha bisogno di un nemico per sentirsi più sicura.
La risposta non è compresa nel prezzo del libro. È sempre in chi legge, in chi rivendica il possesso della propria opposizione. Aveva ragione André Gide. A dire cosa? «La mia vecchiaia avrà inizio quando smetterò d’indignarmi».
(Lidia Ravera, Gli scaduti, Bompiani, 2014, pp. 224, euro 17)
LA CRITICA - VOTO 7,5/10
Distopia di un futuro possibile, dove gli anziani non sono più graditi, dov’è l’età a sancire il comando e quindi il declino. Ipotesi narrativa elaborata con eleganza e intelligenza.