Libri
“Adua”
di Igiaba Scego
Una storia per ricordare all’Italia il suo legame occultato, taciuto e dimenticato con la Somalia
di Giulia Usai / 20 novembre
Adua parla spesso con l’elefantino del Bernini in Piazza di Santa Maria sopra Minerva e gli racconta le vicissitudini che l’hanno portata dalla Somalia a Roma. Chissà cosa penserà la gente, nel vedere una vecchia nera con un turbante blu impegnata in un monologo davanti a una statua. Ma al diavolo i malpensanti: non sanno che le grandi orecchie di pietra dell’animale sono aperte all’ascolto, non conoscono la storia del piccolo pachiderma scolpito, portato in omaggio a Roma dall’Africa da Cristina di Svezia, ignorano quante confessioni ha accolto la figura di marmo nella sua immobilità paziente.
Adua ha un marito, di molti anni più giovane di lei. Si diverte a chiamarlo Titanic, anche se sa che è un nomignolo crudele: Titanic sono tutti i giovani somali sbarcati a Lampedusa su mezzi di trasporto di fortuna, sono quelli che hanno attraversato il deserto e temuto le onde del mare, sono dei sopravvissuti. Adua invece è una Vecchia Lira, come la generazione di somale approdata in Italia in circostanze meno estreme, quando ancora la moneta in uso consentiva di cullarsi in un’illusione di agiatezza e non era la disperazione assoluta a imporre una partenza come unica via di fuga. Questa strana coppia non si ama, ma si appoggia a vicenda consapevole di sostenere un gioco di equilibri: la caduta dell’altro implica la propria caduta. Vivono una quotidianità precaria che – entrambi sanno – è destinata a concludersi con la partenza del più giovane verso il Nord Europa, verso l’amore, verso una vita sì diasporica, ma più dignitosa.
Adua è figlia di Zoppe, che è nato con il dono delle lingue e ha voluto prestarlo all’interpretariato in tempi di occupazione coloniale italiana, che ha dovuto farsi traduttore delle avide ragioni espansionistiche e ha potuto aprire bocca solo per riportare frasi altrui. Si sono fatti la guerra, Zoppe e sua figlia, bruciando di dolore e risentimento per le ingiustizie provocate da scelte sbagliate, per un percorso che il loro spirito di ribellione ha preferito ad alternative meno allettanti. Adua partì per Roma attratta dalla vaga promessa di diventare attrice, e finì per essere manipolata nel corpo e nello spirito, usata e gettata via, stella africana tramontata ancora prima di sorgere. Zoppe giunse in città qualche anno prima per andare incontro a un identico declino.
È un romanzo potente, Adua, e Igiaba Scego ha saputo dosare questa potenza senza eccessi, scegliendo una narrazione che procede per fotogrammi, sensazioni, che racconta la storia con una prospettiva mai didascalica, che preferisce una vicenda spezzettata secondo i ricordi intimi ed efficaci dei protagonisti alla pomposità di una narrazione epica e ordinata. Il corpo di Adua con il suo arrivo a Roma si fa oggetto depersonificato ed erotizzato al servizio di un sistema fondato sulla bianchezza, attrazione da locandina per una commedia sexy anni Settanta, desiderio proibito dal sapore imperialista dato in pasto a telespettatori avidi di esotismo. Il corpo di Zoppe si fa canale comunicante, filo di connessione chiamato in causa per rendere accessibili pensieri terzi, mai per esprimere opinioni. L’autrice reumanizza i due protagonisti, dà loro voce, li incoraggia a condividere la loro storia affinché cessino l’invisibilità e il mutismo al quale sono condannati da una società che non chiede il loro parere. Adua e Zoppe non sono mai esistiti, ma si fanno portavoce delle miriadi di storie simili rimaste inascoltate, delle volontà inespresse, dei punti di vista messi a tacere delle donne e degli uomini neri invisibili nel mondo delle logiche bianche.
(Igiaba Scego, Adua, Giunti, 2015, pp. 192, euro 13)
LA CRITICA - VOTO 8,5/10
La storia di una donna che voleva essere la Marilyn nera e di suo padre interprete degli italiani nel Corno d’Africa che capitombolano di fronte alle illusioni del loro “sogno italiano”. Un romanzo doloroso e importante.