Altre Narratività
Cà phê Nâu Nóng
di Marco Piazza / 21 gennaio
La otto nera entrò in buca con un rumore secco e definitivo. Fu in quell’istante che gli venne in mente di parlarne con il consulente finlandese. Ogni venerdì sera, dopo il lavoro, giocavano a biliardo. Bevevano birra e giocavano. Avevano trovato una piccola sala nascosta dietro al teatro dell’opera: un posto semplice, gestito da una coppia di anziani con i quali non fu mai possibile andare oltre un cordiale scambio di sorrisi. Mentre riposizionava le biglie per una nuova partita, glielo chiese: C’è un lavoro da fare in Bangladesh, ci vuoi andare tu?
Il consulente finlandese non rispose, si avvicinò al tavolo e strofinò il cubetto di gesso sulla punta della stecca. Giocarono ancora qualche partita poi si salutarono con un’umida stretta di mano. I loro volti lucidi di birra e sudore.
Questo succedeva una settimana dopo che sua moglie, al telefono, gli aveva detto che dovevano operarla, ancora una volta.
Aveva lavorato a quella missione per tutto il mese precedente. Le presentazioni in Power Point erano pronte. Le simulazioni al computer funzionavano alla perfezione e, se ci fosse stato bisogno, aveva una serie di study cases di progetti simili in altri paesi.
Poi c’èra stato il terremoto in Nepal. Lo aveva sentito in televisione durante il notiziario della CNN e aveva visto le foto su internet. Nei giorni successivi alcuni esperti avevano previsto una serie di altri terremoti lungo una falda verso sud est. Fino al Bangladesh? Non ne fece cenno parlando con il consulente finlandese. Gli disse invece che era tutto pronto, che sarebbe stato un lavoro semplice.
Dopo le serate alla sala biliardo tornava a casa in moto. L’aria era ancora calda e tratteneva gli aromi delle cucine sulla strada. Qualcuno aveva già impilato i tavolini e gli sgabelli di plastica, raccolto gli avanzi e abbassato le serrande. Quella sera guidava piano, lungo i vialoni di Hanoi, quasi deserti dopo la mezzanotte. In fondo al viale vide una nuvola di colore che scintillava e si dimenava al vento. Quando la raggiunse vide, fermo al semaforo, uno scooter a cui erano stati legati dei palloncini colorati, di quelli in pellicola d’alluminio. Piccoli riflessi sotto la luce fioca dei lampioni. Quand’è che le cose avevano smesso di essere colorate?
Ogni mattina, da tre mesi, si svegliava già sudato. I primi tempi, per una strana forma di testardaggine, non accendeva l’aria condizionata. Ma poi si era dovuto arrendere all’alone di sudore sulle lenzuola. La metteva al minimo e in quel modo riusciva a addormentarsi. Al mattino, ancora prima della sveglia puntata sul telefono, sentiva la nenia della donna in bicicletta – foulard sul volto e tipico copricapo a cono di bambù – che passava vicino alle finestre col suo carico di cibo da vendere: pane, banane, bastoncini di canna da zucchero.
Dopo la doccia scendeva in strada, pochi passi e già due gocce di sudore gli rigavano il viso. Poi entrava al Café Tuong. La signora ormai lo conosceva, il suo “solito” era un bicchiere di Cà phê Nâu Nóng: caffè caldo servito in un bicchiere con uno strato di latte condensato sul fondo. Si sedeva sempre sulla stessa sedia e avvicinava a sé il ventilatore puntandoselo contro. Aveva provato anche le altre versioni di caffè: scuro senza latte (Cà phê nóng) e con ghiaccio (Cà phê đá), ma da subito si era affezionato al gusto dolciastro e all’aroma di cioccolato del Nâu Nóng.
In Vietnam, bere il caffè è un’operazione che richiede tempo. Ci sono locali a ogni angolo e sembra che quando fa troppo caldo l’unico sollievo sia sedersi di fronte a un ventilatore e bere la bevanda ghiacciata. Il caffè viene servito in un bicchiere sul quale è appoggiato il filtro: una coppetta di metallo, con il fondo bucherellato, riempita di caffè macinato in modo grossolano. Sopra il caffè è appoggiato un disco perforato sul quale viene versata l’acqua bollente. Poi bisogna solo aspettare. Il bicchiere si riempie una goccia alla volta, una ogni secondo, o poco meno. Si abituò presto a quel rituale e anzi iniziò a considerare quei minuti di attesa come una sorta di meditazione. Svuotava la mente e rimaneva a osservare le gocce di caffè che cadono nel bicchiere. In quel modo si preparava alla giornata di lavoro.
Il consulente finlandese non rispondeva. Aveva sentito anche lui del pericolo del terremoto? Provò più volte a convincerlo. Dopo tutto il lavoro che aveva fatto si sentiva responsabile. Dover rinunciare a quella missione non lo faceva sentire a suo agio. E ora aveva pochi giorni per trovare una soluzione. Provò a adularlo: chi meglio di lui poteva sostituirlo? Conosceva alla perfezione le metodologie che stavano promuovendo in molti paesi. In Vietnam stava funzionando e c’erano tutti i presupposti perché ciò avvenisse anche per il Bangladesh. Bisognava solo convincere i funzionari del ministero, ma con le spalle coperte dai finanziamenti della Banca Mondiale sarebbe stato poco più che una formalità. Il consulente finlandese non si sbilanciava, cambiava discorso: Lo sai che il Vietnam è il secondo produttore al mondo di caffe? No, non lo sapeva e in quel momento non gliene importava niente. Così come non gli importava di sapere che nel Nord del Vietnam si usa di più bere tè, mentre nel Sud è il caffè che va per la maggiore. Come con mia moglie, pensò: lei colazione con il tè, io con il caffè.
Intanto la cartella clinica si riempiva di nuove analisi, ecografie, esiti. Nonostante ciò l’aveva sentita tranquilla al telefono. Si stava forse abituando ai colori tenui e all’odore anestetizzato degli ospedali?
A volte, invece del solito café vicino a casa, raggiungeva a piedi uno Starbucks, quantomeno per godere di un quarto d’ora di fresco. Il getto dell’aria condizionata, pungente, gli asciugava il collo e il sudore dietro la schiena. Quel sabato alla cassa c’era una ragazza che non aveva mai visto prima. Ordinò un bicchierone di caffè nero. La ragazza gli diede il resto, dissero grazie all’unisono e sotto il suo sorriso notò la cicatrice. Non faceva niente per nasconderla: camicia con i primi bottoni aperti e capelli legati dietro la nuca. Una cicatrice lunga dieci centimetri sul collo. Una linea curva, come la bocca di un emoji sorridente. Si sarebbe abituato a vedere quel sorriso senza labbra sul collo di sua moglie?
Si scottò la lingua. Ti comprerò un collier di perle, le aveva detto. Continuò a bere adagio: piccoli sorsi di caffè che scendevano roventi in gola. Sì, aveva detto sua moglie, un collier di perle giganti. Avevano sorriso insieme, ognuno davanti allo schermo del proprio portatile. Erano abituati a passare lunghi periodi distanti l’uno dall’altra. Il suo lavoro lo teneva spesso lontano da casa e il fatto di essere di nazionalità diverse aumentava le occasioni nelle quali lui era in giro per il mondo e lei a casa della sua famiglia, in Giappone. Per loro andava bene così. Per loro la presenza aveva poco a che fare con la fisicità.
Questa volta però era diverso. Questa volta voleva esserci. Voleva stringere le sue mani e passare le dita tra i suoi capelli. Incontrare di nuovo il suo sguardo. Poi sarebbe arrivato il momento di guardare in faccia il chirurgo che avrebbe inciso il collo di sua moglie.
Il giorno dell’operazione era stato fissato per il 5 giugno. La prima volta invece era stato il 14 dicembre. Un’operazione perfetta a detta del primario del Gemelli. Una tiroidectomia totale con intervento video assistito. Una cicatrice di appena un centimetro. Era bastata una collanina fine, con un pendente a goccia: un rubino, come aveva chiesto lei. Una cosa veloce, un caffè espresso bevuto al bar dell’ospedale. Dieci secondi. Quanto ci vuole a bere un caffè? Neanche il tempo di rendersene conto. Anche la convalescenza era durata poco, subito si erano buttati sulla programmazione del nuovo anno, il lavoro in Vietnam per quattro mesi. Lei lo avrebbe accompagnato e poi avrebbe proseguito per il Giappone.
Il primo incontro con la malattia era arrivato di sorpresa. Meglio operare subito, avevano detto. Caffè senza zucchero. La bocca amara e gli occhi puntati sul fondo del caffè nella tazzina. Era forse già scritto lì dentro che un taglio non sarebbe stato sufficiente?
Sono rimasti dei linfonodi. Come hanno fatto a non vederli? Il dottor Ishigawa sembrava più irritato che sorpreso. Fanno i pasticci in Europa e poi vengono qua a riparare i danni. A sua moglie scesero due lacrime che si sciolsero ai lati della bocca, ma sentir parlare del suo male nella sua lingua la faceva stare bene.
Ci vogliono più di cinquecento gocce per riempire un bicchiere. Lunedì mattina si svegliò presto, fece una doccia e si preparò il caffè a casa. Rimase con lo sguardo puntato verso le gocce di caffè. Le guardò cadere tutte, una dopo l’altra. Seduto su uno sgabello, in cucina, rimase a fissare quegli istanti scanditi dalle gocce d’acqua bollente che attraversano il caffè e cadono scure sul fondo del bicchiere. Poi scrisse un’email al capo progetto: Non potrò andare in Bangladesh. E anche il consulente finlandese ha rifiutato. Dovrete trovarvi qualcun’altro. Poi comprò il biglietto: Vietnam Airlines, Hanoi-Osaka e ritorno. Infine le telefonò. Sarai bellissima, le disse, lo sarai sempre. Sto arrivando. Faccio in fretta. Il tempo di un caffè.
Marco Piazza (1973) Nato a Como, vive a Roma. Lavora come forestale su progetti in ambito internazionale. Ha pubblicato come autore e traduttore su riviste e online. Si è classificato terzo all’edizione 2013 del concorso 8×8. Ha pubblicato il racconto “Maschio alfa” nell’antologia L’amore ai tempi dell’apocalisse – Racconti da un futuro prossimo curata da Paolo Zardi per Galaad Edizioni (2015). Cura il blog Country Zeb.