Libri
“Gli anni”
di Annie Ernaux
Una coraggiosa narrazione per immagini che partono dal privato per parlare dell'intero "palinsesto occidentale"
di Cristiana Saporito / 17 febbraio
Hanno scritto di John Berger: «Quell’opera che è penetrata nella sua vita e che lo interroga sembra bramosa di risposte. Come se fosse arrivata da quel futuro che è il passato e fosse casualmente presente per ospitarlo e attraverso di lui incontrarci in un vortice di connessioni, confronti, associazioni, vacillamenti, immaginazioni che, attraverso l’oscurità, forse ci ricondurranno insieme alla luce».
Questo perché John Berger, critico d’arte, scrittore e pittore, è sopratutto un mastodontico detentore di sguardi, un poderoso disarmante attraversatore d’immagini, capace di ciò che ci sfugge. Ed è paradossale quanto in un anfratto temporale come questo, in un ingorgo perenne di stimoli e visioni, centrifugati appena prima di rendersi pensieri, si resti spesso impreparati davanti a una foto. Ci diluviano addosso, di sorrisi imperativi e riflussi torrenziali, ma non sappiamo leggerle. Non come dovremmo. Occhi monchi, mani miopi, le vediamo susseguirsi più o meno trionfalmente. Sono loro a correre o siamo noi che le rincorriamo? Eppure, sono quanto ci resta. Il brandello reificato di quel passare inafferrato che chiamiamo vita.
Annie Ernaux lo sa, lo ha capito e dimostrato con dovizia. Nel suo romanzo più recente, autobiografico e impersonale, singolo e trasversale, intitolato Gli anni (L’Orma, 2015), ha scelto proprio un corredo di foto come spunto narrativo. Una sequela di tracce incorniciate per dipanare la sua Storia e quella collettiva. E da quel guardare, da quello sversamento inesorabile di umori, sbiadimenti e sensazioni, sgorga l’esatta trasparente ragione del suo scrivere.
È lei stessa a illustrarcelo, fingendo di preannunciare in coda ciò che di fatto è già avvenuto: «La forma del suo libro può dunque emergere soltanto da un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell’epoca, dell’anno, più o meno certo, nel quale esse si situano –per collegarle tra loro e ad altre ancora, e sforzarsi di ascoltare le parole delle persone, i commenti sui fatti e sugli oggetti estrapolati dalla massa fluttuante dei discorsi, quel vociare che apporta senza tregua le continue formulazioni di ciò che siamo e dobbiamo essere, pensare, credere, temere, sperare».
Guardare per sentire, quindi. Ritrovarsi tra le dita un frammento del proprio stare al mondo, una foto erogata con tecniche e velocità variabili, e da quel minimo lascito, da quella data appostata sul retro, ricostruire un senso, intimo e globale, che ovviamente è appartenuto solo a lei e in cui ovviamente (per i francesi in prima istanza e per tutti noi europei) è impossibile non riconoscersi affatto.
Comincia dal ’40 questa trama, da mesi di guerra che anneriscono i denti e le lenzuola. Comincia da un neonato grassoccio e imbronciato, appollaiato al centro di un tavolo intarsiato. Un tentativo rituale di scacciare l’ombra, la miseria e il timore che aleggiano ancora e comunque, oltre i bordi sommessi di quel debutto celebrato. È lei quel soprammobile di carne, arrivata nel pieno di un buio arrovellato. È lei quella bambina che ignora di essere nata in un mondo che s’insanguina, che escogita motivi per odiarsi a dovere. Poi quella bambina cresce, in un vestito a balze e con i riccioli più ampi. La guerra è cessata, ma non la povertà e i racconti infiniti di tutto quel dolore, cantilenati a tavola senza un cenno di stanchezza, esorcizzano e rinnovano un patto. La tacita coscienza di avere le spalle ancora fredde, di non scordarsi quell’orrore affinché ogni giorno sia distante, sia distinto. E poi via, trapassando le stagioni, le grandi illusioni, l’irrompere del rock come nuova religione, il ’68 francese dilagante quando Annie era già madre, responsabile di un avvenire più esteso del proprio.
«Noi, che fino ad allora ci eravamo schierati solo blandamente dalla parte dei lavoratori, che compravamo cose senza desiderarle davvero, ci riconoscevamo negli studenti di poco più giovani che lanciavano sanpietrini ai poliziotti. Al posto nostro chiedevano conto al potere di anni di repressione e censura […] Vendicavano l’addomesticamento della nostra adolescenza, il silenzio rispettoso nelle aule magne, la vergogna nel far entrare i ragazzi di nascosto nelle stanze dello studentato».
L’ondata si acquieta e il nuovo culto si conta in moneta. È il denaro, lo status di cliente a denotare l’uomo. Mercificato, soppesato, accalappiato solo in virtù della sua propensione all’acquisto. Un burattino del consumo. «Il centro commerciale, con il suo ipermercato e le sue gallerie di negozi, diventava il luogo principe dell’esistenza, quello della contemplazione inesauribile degli oggetti, del godimento calmo, senza violenza, protetto da guardie giurate dai muscoli forti».
Eccoci qui, ancora una volta radiografati per bene, da un continuo imperfetto, un tempo immutabile pronto a ogni mortale condizione. Annie Ernaux con Gli anni parla in terza persona, guarda quel sé incagliato nelle immagini, essendo già altro, imprendibile se non a distanza. E la sua lucidità, che non demonizza e non scagiona, ci infligge un ritratto innegabile. Il nostro esserci istantaneo, sperperato nei naufragi quotidiani.
Un romanzo che non comincia mai e che quando finisce ci ha raccontato tutto. Con dialoghi impliciti, sottocutanei intrecci e il bisogno feroce di non svanire, mentre ciò che affermiamo sta evaporando. «Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio e nessuna parola per dirlo».
E allora, per un attimo per sempre, con un libro o con un sogno, scattiamo una foto. Senza mai disimparare a guardarla.
(Annie Ernaux, Gli anni, trad. di Lorenzo Flabbi, L’Orma, 2015, pp. 276, euro 16)
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LA CRITICA - VOTO 8/10
Dopo lo straordinario Il posto, Annie Ernaux ci propone una coraggiosa narrazione per immagini, dove la storia privata, osservata come una serie di scatti, confluisce in quella macroscopica, dell’intera Francia e di tutto il “palinsesto occidentale”