Flanerí

Varia

Le trenta ore non-stop del Palais de Tokyo di Parigi

di Jacopo Benedetti / 20 aprile

Prima della riapertura con la Triennale Intense Proximité (a partire dal 20 aprile), il Palais de Tokyo, a Parigi, ha spalancato momentaneamente le porte per una trenta ore non-stop ricca dei più disparati eventi.

A partire dalle ore 20 di giovedì 12 aprile fino alla notte di venerdì 13, quello che è ora divenuto il più vasto spazio dedicato all’arte contemporanea in Europa è stato infatti teatro di diversi concerti, performance, conferenze e spettacoli: Christian Marclay e Phil Minton, Lucas Abela, Gwenaël Morin e Hajnal Nemeth sono solo alcuni dei numerosissimi artisti ospitati in occasione di questa eclettica e mastodontica manifestazione.

Dopo dieci mesi di lavori, il Palais de Tokyo passa dunque da una superficie di circa 7000 metri quadrati a una di 22000 metri quadrati, grazie alla riunificazione dei preesistenti spazi affidata agli architetti Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal: quattro piani di cemento bruto e metallo totalmente e freneticamente investiti dalle più eterogenee forme dell’espressività dei nostri giorni.
Passeggiando tra gli immensi locali, attraversando i labirintici corridoi, sostando sulle varie terrazze e percorrendo nelle due direzioni le ampissime scalinate, ci si confronta in ogni istante con opere compiute o in procinto di farsi, lavori appositamente ideati per questa struttura e destinati a restarvi per circa un anno. L’intento del nuovo direttore, secondo le sue stesse parole, è invero quello di permettere allo spettatore nuove modalità di fruizione di un’arte che fa dell’immediatezza uno dei suoi punti di forza, consentendogli in certi casi di essere appunto diretto testimone non soltanto di un risultato finale ma del processo stesso di creazione e trasformazione che a quello condurrà.

Arrivo sul posto venerdì verso l’ora di cena e appena varcata la soglia la mia attenzione è subito attirata dalla performance del musicista elettronico, compositore, produttore e fotografo Aki Onda, il quale elabora complesse e stranianti trame sonore mediante l’utilizzo di molteplici walkman a cassette con i quali realizza, manipola e sovrappone “Cassette Memorie”, una sorta di giornale di venti anni di vita del suono.
Decido poi di consumare una birra e, avvicinandomi al ristorante, noto che le enormi vetrate di quest’area, vivacemente colorate, sono completamente coperte di onomatopee in stile manga che, successivamente, scopro esser state ideate da Christian Marclay, il vincitore del Leone d’oro dell’ultima Biennale di Venezia.

Comincio poi una lunga e volutamente casuale peregrinazione e vengo anzitutto colpito dalla scultura monumentale del belga Peter Buggenhout (“The Blind Leading the Blind”), un’opera apocalittica sospesa al di sopra di una scalinata ed emanante un ambiguo senso di potenza e fragilità al contempo, un caotico e multiforme assemblaggio di ingombranti materiali che danno la netta sensazione di potersi improvvisamente staccare dal soffitto al quale sono minacciosamente appesi.

Continuo quindi, un po’ scosso, la camminata finchè la mia vaga inquietudine si trasforma in divertita curiosità davanti all’invenzione di Lucas Abela “Vinyl Arcade”, un circuito per vetture radioguidate composto da più di seimiladischi vinili, con le macchinine equipaggiate di una telecamera che permette di seguirne il percorso in soggettiva da uno schermo e di una “puntina”che “scratchando”in maniera aleatoria la pista produce sonorità in stile noise.

Salgo allora al piano superiore dove è appena cominciata la pièce teatrale di Gwenaël Morin “Introspection”, interpretazione – caratterizzata dalla totale assenza di ornamenti, costumi ed effetti spettacolari – di un suggestivo testo di Peter Handke a opera di un gruppo di attori diformazione e temperamento variabile, atta a rappresentare probabilmente le numerose ed eterogenee sfaccettature di un’unica personalità.

Il mio viaggio multiforme e a suo modo allucinatorio termina infine, dopo aver passato rapidamente in rassegna varie opere ai piani inferiori, col concerto di chiusura delle due giornate affidato a Matthew Herbert e al suo “One Pig”, lavoro elettronico e radicalmente sperimentale narrante la vita di un maiale, dalla nascita passando per l’abbattimento fino alla successiva commercializzazione e degustazione.
Tra sintetizzatori, percussioni sintetiche e campionatori, lo show è di quelli votati a lasciare il segno non soltanto per la stranezza del sound proposto, un sound stridente, inquietante, malsano, industriale, a tratti ipnotico o improvvisamente e malignamente percussivo – fatto di grugniti e rumori vari direttamente provenienti dai luoghi deputati all’allevamento del bestiame, dai mattatoi e dalle fabbriche per la lavorazione e il confezionamento della merce da immettere nel mercato – ma anche per l’originalità dell’impianto scenico: sul palco sono infatti disposti piccole balle di fieno e i vari musicisti indossano camici bianchi da macellai; uno di loro, collocato all’interno di una sorta di recinto dalle corde sonore, cambia di brano in brano la propria veste che reca la scritta dei diversi mesi dell’anno (a indicare una diversa tappa nel processo che porterà alla consumazione del prodotto finale); alle loro spalle, un cuoco disposto davanti ai fornelli cucina intanto l’animale che a fine concerto, quando l’odore di carne avrà ormai invaso l’intera sala, sarà elegantemente servito al pubblico e ingurgitato da quelli, forse non molti, ancora affamati poichè verosimilmente rimasti indenni alla carica critica della toccante esibizione.


Trenta ore non-stop al Palais de Tokyo, Parigi.
L’evento si è svolto tra giovedì 12 e venerdì 13 aprile 2012.