Libri
“Nessuno scompare davvero” di Catherine Lacey
Ritratto di una fuga impossibile
di Cristiana Saporito / 24 marzo
Elyria è la terza. In poco tempo. La prima è stata Cheryl. Imbarcata in una marcia impensabile. Monumentale e così vulnerabile col suo scarpone orfano su un precipizio di silenzio.
Poi è subentrata Charlotte, affiorata a Boca Grande come un’orchidea imprevista. Donne scampate.
Da terremoti non registrati. Nessun sismografo che ufficializzi il dramma. Donne incapaci di ritrovarsi con la propria vita addosso. Deluse, scalfite, macerate nel torpore che non spiove. Donne fuggite.
Cheryl Strayed ha raccontato se stessa nel romanzo Wild (Piemme, 2012), mentre Charlotte esiste grazie a Joan Didion e al suo Diglielo da parte mia (E/O, 2013). Così, quando ho tamponato Elyria, ho capito che non poteva trattarsi di un caso.
In parte forse per l’astuzia del titolo. Nessuno scompare davvero (Sur, 2016). Constatazione semplice e quindi ineluttabile. In parte perché un libro ci chiama. Sferruzza il suo appello sottocutaneo e poi ci trafigge, in tempi incalcolati. Dipende dall’autore. Da come e quanto sappia ingoiarci nella sua voragine.
Da quanto quella trama diventi una Dionaea. Catherine Lacey, giovane scrittrice americana, ha sfornato una storia carnivora. Quella di Elyria, appunto. Ventottenne newyorkese regolarmente sposata, regolarmente inserita. Nella sua casa ben foderata, nel suo mestiere di autrice di soap opera. Eppure. La sua mente straripa di eppure. La sua mente è una steppa solcata d’angoscia. Spazzata da un bufalo.
E così Elyria, battezzata col nome di una città dell’Ohio in cui sua madre non è mai passata, decide di partire. Lascia Marito, maiuscolo e anonimo quasi fino alla fine, città, abitudini e spazi, per trapiantarsi in Nuova Zelanda. Dove nulla e nessuno la sta aspettando.
Nessun confine morbido per il suo corpo forestiero.
Ha in mano solo un remoto indirizzo, una fattoria con un letto sgombro e il desiderio di svanire, scarcerarsi dal solito. La partitura del dover dire e vestire e abitare le stesse dimensioni, perché così ha statuito, un giorno di tanti anni prima, perché in pochi labili spifferi di luce ha pensato di potercela fare. Ha scelto di coniugarsi, di far rima con qualcuno che non fosse il suo vuoto. Un qualcuno che fu il professore di sua sorella adottiva, morta suicida. Un qualcuno che fosse un nodo con ciò che non si è mai spiegata.
Ha provato a incarnare la norma Elyria, a percepire quel rumore discreto, il crepitio leggero di chi si sente felice. E robusto dentro i suoi margini. Ma il bufalo la insegue, le rammenta correndo che non è lì che dovrebbe stare. E che forse non c’è nessun altrove.
«E io stavo là. E anch’io non avevo prodotto nessuna conseguenza – ero un non sequitur umano – smarrita e senza senso, una brutta barzelletta, una barzelletta senza capo né coda».
Anche quando arriva continua a vagare, a incontrare, a simulare quel senso sociale che non le appartiene.
Perché per lei non è contemplato alcun approdo. Ognuno in fondo pretende o presume che lei s’innesti, che si leghi e partecipi e senta di comporre un insieme.
Ma Elyria non si compatta. È disarticolata come un cesto di frattaglie. Fuori strada, fuori posto, soprattutto dentro di sé. È un vento di pensieri in cui si finisce risucchiati. Ed è esattamente questo il lato vorace di tutto il romanzo. Non certo la vicenda, comune a tante evasioni. Ma l’ossessione, il vortice, la centrifuga insaziata di tormenti e riflessioni; la costante dichiarazione d’impossibilità di qualunque allontanamento dal problema. Che non è il contesto.
Non c’è nessuna moglie malmenata e zittita (escludendo le involontarie percosse notturne che Marito le riserva nel sonno), nessuna Casa di bambola da rinnegare.
Sussiste e perdura un prurito febbrile, quel disagio ammorbato che Sarah Kane definì crave, quella fame mai quieta, quel non saper stare, quel disaffezionarsi a qualunque direzione.
«Mi si stavano screpolando le labbra e mi venne in mente che tutte le cellule di ogni corpo vanno incontro alla totale disidratazione e che tutta la gente del mondo ci pensa di continuo ma nessuno lo dice e nessuno lo dice perché non è che lo pensino veramente questo pensiero, ce l’hanno e basta, come hanno le dita dei piedi, come quasi tutti hanno le dita dei piedi; ed è proprio la consapevolezza che ci stiamo tutti prosciugando a far premere l’acceleratore a tutta quella gente che monta in macchina e se ne va, il che mi ricordò che io non stavo andando da nessuna parte».
È una storia vagabonda incollata alla sua fuga. Elyria non può scomparire a se stessa. Nessuno scompare davvero. Neanche sua sorella, che ha abbracciato lo schianto, che ha saltato molto di più di lei per riuscire a eliminarsi. Ruby resta una traccia, una scia di vernice nei gesti di Elyria, nel suo rimuginare ammattito e quasi ipnotico. E la scrittura di Catherine Lacey gronda sconforto. Cerebrale sconfitta. È la gabbia perfetta di un animale in cattività. Come siamo in molti, senza biglietti per voli oceanici, ma con lo stesso identico bufalo che ci pedina, anche al supermercato. Mentre strizziamo una smorfia che chiamiamo sorriso.
(Catherine Lacey, Nessuno scompare davvero, trad. di Teresa Ciuffoletti, Sur, 2016, pp. 243, euro 16,50)
LA CRITICA - VOTO 7,5/10
Catherine Lacey, con grande abilità narrativa, costruisce un personaggio femminile fragile e appuntito, condannato al gorgo infinito dei suoi pensieri, da cui non c’è andata né ritorno.