Libri
“Dalle rovine”: biopsia di un romanzo
Un'intervista a Luciano Funetta
di Dario De Cristofaro / 11 maggio
Uno dei libri di cui si è parlato di più – e bene – negli ultimi sette mesi è Dalle rovine di Luciano Funetta (Tunué, 2015). Da sempre diffidente verso il consenso a furor di popolo, ho preferito aspettare che le acque si calmassero prima di incontrare Luciano per parlare del suo libro. E in effetti due mesi fa circa, periodo a cui risale l’intervista che segue, sembrava che tutta l’attenzione intorno a Dalle rovine stesse scemando, come è fisiologico per qualsiasi romanzo, buono o cattivo che sia. Ricordo che allora parlammo della sua candidatura al Premio Strega come di una boutade.
Ma quelli erano altri giorni. Oggi Dalle rovine è nuovamente al centro della scena narrativa italiana e Luciano è stato incluso tra i dodici finalisti dello Strega 2016. Credo sia giunto perciò il momento di rivelare cosa ci siamo detti in un pomeriggio di febbraio, seduti a un bar, nel quartiere San Lorenzo, a Roma.
Luciano, partiamo da una domanda secca: ti aspettavi tutto questo clamore intorno a Dalle rovine?
No, sinceramente no. Però credo che molto sia dovuto al fatto che prima che arrivassi io Tunué aveva lavorato molto bene sugli altri libri della collana Romanzi. La casa editrice ha due punti di forza fondamentali: il primo è Vanni Santoni che ha una personalità inarrestabile; il secondo è l’ufficio stampa, Claudia Papaleo, che è straordinaria. Tutto quello che è venuto dopo è stato assolutamente inaspettato e io stesso faccio un po’ fatica a gestirlo.
L’impressione che ho avuto è che si sia creato un movimento intorno al tuo libro simile alla pesca a strascico, nel senso che alcune persone lo hanno individuato e capito e ne hanno parlato bene; molte altre invece mi sono sembrate più attratte dal fenomeno, dalla moda.
Te lo dico, tutta questa attenzione mi imbarazza, moltissimo. Tanto che a volte preferirei dimenticarla, anche perché questo riscontro inaspettato scombina un po’ i piani per quello che dovrebbe essere il mio lavoro successivo. Sto ovviamente scrivendo di meno perché mi trovo a dover gestire questo fenomeno. Sono d’accordo con te sul fatto che il successo di un libro, o comunque l’attenzione verso un libro sia una pesca a strascico, perché ormai ci sono talmente tante persone che possono parlare di un argomento, che diventa davvero difficile controllare il grado di reale coinvolgimento e di sincerità su quanto viene detto. Adesso, in realtà, proprio negli ultimi tre giorni [a fine febbraio, ndr], questa tendenza sensazionalistica si è attenuata e sono uscite due recensioni piuttosto critiche verso il mio libro. Le ho accolte con sollievo.
Io, come chi già ti conosceva, ho imparato ad apprezzare la tua scrittura attraverso i racconti: Gli occhi della montagna, uscito su Granta Italia 3 per esempio, o Tahmer-Za pubblicato su effe – Periodico di Altre Narratività #1, e ancora le storie scritte per TerraNullius. Dalle rovine invece mi ha ricordato un po’ alcuni film di Tarantino, che mettono in mostra l’indiscutibile qualità tecnica dell’autore, a discapito della trama e del suo messaggio intrinseco, preferendo magari il citazionismo. Un libro per amatori insomma.
In realtà non aspiravo, scrivendo il libro, a una comprensione universale del presunto messaggio che porta con sé. È ovvio che quando scrivo, ho un lettore ideale in testa, che non sono io, ed è ovvio che quello che scrivo è destinato a essere in un certo modo, anche se non dovesse piacere a nessuno, perché nasce per non compiacere nessuno. Non penso che Dalle rovine sia un romanzo costruito sul citazionismo. Di sicuro mette in scena un’estenuante immobilità, come acqua stagnante in cui stanno a mollo individui che non possono fare altro che parlare. E quando parliamo, solo poche parole, pochissime idee sono davvero nostre. Quando parliamo, soprattutto in una circostanza delirante come quella che investe i protagonisti di una storia e colui che quella storia la scrive, chiamiamo in causa molte cose e non sempre riusciamo a raggiungere chi ascolta. Diciamo che non esiste un libro, questo poi in particolare, che possa avere una ricezione universale.
Qualcuno ha parlato di oscenità o pornografia di Dalle rovine, ma in realtà il romanzo parla d’altro – la scena dei serpenti è solo un innesco narrativo. Personalmente ci ho visto molto di quella stessa ricerca intorno a cui ruota I detective selvaggi di Roberto Bolaño, una ricerca dell’arte e nell’arte che conduce poi alla perdizione, alla follia.
Non esiste una parte oscena in questo libro. Tolta la faccenda dei serpenti che è in sé il momento, se vogliamo dire, più spinto che c’è nel romanzo. Non vedo come quel momento si sarebbe potuto sviluppare in maniera diversa. Se io avessi portato quel tema agli estremi, avrei scritto un romanzo sul porno o sulla devianza. Invece ciò che ho voluto raccontare è esattamente l’opposto: una malattia che non ha a che fare con il corpo ma con un altro tipo di manifestazione. Il momento in cui Rivera compie il gesto di masturbarsi con i serpenti, da un certo punto di vista è un momento curativo per lui, un momento in cui la sua solitudine raggiunge una catarsi che porta al compimento il suo stato di allontanamento dall’umanità. La malattia che viene esplorata dopo è di altro tipo e non ha fondamentalmente sbocchi, poiché tutti gli altri personaggi che vengono mostrati e si scoprono come esseri perduti o esseri che sono arrivati alla fine di un percorso di disgregazione, di disintegrazione della loro morale, del loro appartenere alla razza umana in quanto società, non riescono, con un colpo di coda, con un gesto estremo – come quello di Rivera – a trovare la loro via di fuga.
L’unico forse è Tapia, ma ha in mente un progetto troppo grande per essere realizzato, un progetto impossibile. Quindi solo Rivera raggiunge il suo obiettivo; gli altri non ci riescono nonostante ci abbiano provato attraverso altri processi come la malattia, il suicidio o il delirio. La loro è una salvezza completamente capovolta perché un suicida, un malato e un pazzo scatenato non possono pensare che la loro idea di salvezza sia accettata o accettabile per il resto dell’umanità: essendo fondamentalmente degli enormi mitomani e enormi malati, finiscono per annullarsi, ma solo dopo aver ammesso la natura profonda della loro dissolutezza e della loro solitudine.
Nemmeno Rivera si salva alla fine però…
Beh, Rivera non si sa se si salva o meno. Diciamo che Rivera non ha la necessità di salvarsi per quelle che sono le sue prerogative, per le sue scelte. Rivera ha più un ruolo di testimone: la testimonianza attraverso l’esperienza. Gli altri non possono testimoniare nulla. Sai, c’è l’antico significato greco della parola “martire” che significa testimone, il martire non è colui che muore ma colui che sopravvive per raccontare le cose. Il fatto che Rivera sopravviva o meno, secondo me non è fondamentale. Quello che è fondamentale è che arrivi alla fine di una traiettoria che lo ha visto partire da solo, dopo essersi lasciato alle spalle l’atrocità della sua appartenenza alla razza umana, e lo vede arrivare, sempre da solo, in un punto in cui ha tutte le atrocità della razza umana davanti a sé e quindi si può preparare, di nuovo, a vederle in quelle che sono le loro forme più assurde, indescrivibili e forse anche innaturali. Sia lui che Tapia sono personaggi che, da un certo punto di vista, attuano un movimento di rivolta metafisica, nel senso che non accettano la condizione di essere umani ma si proiettano verso un superamento di questa condizione. Rivera riesce a superare la condizione perché accetta la solitudine come processo fondamentale della rivolta; Tapia invece non ci riesce perché ha bisogno di essere riconosciuto come re, come sovrano, perciò ha bisogno della presenza di altri esseri umani.
Rivera diventa un dio per creature che non sono umane: il suo atto d’amore nei confronti di qualcuno avviene insieme ai suoi serpenti; Tapia richiede che questo riconoscimento avvenga da parte dei suoi simili e questo non può succedere nel momento in cui tu, per fare questo, scateni una potenza maligna.
Chi è Tapia di fatto?
Di fatto è un uomo che vive delle bugie che gli hanno raccontato e che ha trasformato nella propria realtà. A un certo punto, si trova a vivere in una realtà che è assolutamente inesistente ma che per lui costituisce l’unica ragione di vita, una prospettiva in un certo senso assurdamente distorta che lo pone al centro di qualcosa. Ma questo è ciò che lui racconta, non si sa mai se corrisponde al vero oppure no.
C’è una foto però che testimonia il suo passato.
Sì, ma una foto se non è interpretata non è niente. Così come un’immagine cinematografica. Se non esistono delle coordinate per interpretare qualcosa quel qualcosa diventa muto, una reliquia vuota, silenziosa. Tutto il romanzo è basato sulla scelta di guardare e interpretare o sul non guardare affatto, di essere innocenti, da un certo punto di vista, ma anche colpevoli. Ricordo di aver letto una frase che era qualcosa come: a furia di non guardare, per non vedere le atrocità e per non sentirsi coinvolti, si finisce per essere colpevoli. Quindi da qui l’idea del cinema come quinta teatrale di tutto il romanzo, o comunque come suggestione – questa idea era uno dei nodi della storia. L’osservazione e il racconto di ciò che si osserva sono fondamentali, perché poi tutti i racconti, così come il raccordo che c’è tra i personaggi, derivano dalle loro stesse parole, dai loro stessi racconti. Non potremo mai sapere se quei racconti sono veritieri oppure no, oppure se la chiusura di questo gruppo di persone ha auto-alimentato un mito, una mitologia delle loro vite che non ha nessun riscontro. Anche perché i produttori, Rivera, Tapia costituiscono un gruppo isolato. È un gruppo che sta alla fine di qualcosa, all’estremo di qualcosa e che vive questa esperienza di esplorazione in completo isolamento rispetto al mondo. Quindi le vite di questi personaggi diventano le uniche coordinate nei loro racconti e le loro malattie diventano le uniche coordinate per rappresentare l’umanità. Anche la fotografia di cui parlavi suggerisce qualcosa ma non chiarisce affatto, pensa: se tu stai a casa tua e a un certo punto trovi una fotografia in cui riconosci una persona che ti è familiare ma ignori chi siano tutte le altre persone presenti in quella fotografia, la prima cosa che fa la tua testa è immaginare delle connessioni tra quelle persone, ovvero, immaginare una storia che ha portato poi al momento dello scatto. Ma non potrai mai sapere se la ricostruzione nella tua testa rispecchia effettivamente la realtà. Però quella ricostruzione, fino a che non ti troverai eventualmente di fronte a una documentazione che la smentisce o che la conferma, resterà la tua verità.
A confondere le acque c’è anche quell’entità, forse un gruppo di persone, che si fa voce narrante, sin dall’inizio. L’ipotesi è che possa trattarsi dei cinque protagonisti del film di Tapia. Un coro che parla e confonde, e che dà alla storia un respiro quasi mitico, creando un effetto straniante rispetto al succedersi dei fatti narrati.
La nascita di questa voce è stata abbastanza casuale, nel senso che mi sono ritrovato a scrivere così il libro. Non c’era una ragione in particolare, anche perché questo non doveva essere un romanzo, ma un racconto con tutt’altra destinazione. Quando mi sono trovato con molte pagine e mi sono reso conto che quella voce continuava a essere presente, con il suo punto di vista, mi sono chiesto se avesse un ruolo o se fosse semplicemente un’impalcatura sulla quale avevo costruito la mia presenza dentro alla storia. La risposta che mi sono dato è che erano vere entrambe le cose.
Avevo anche provato a passarla in terza persona ma non ci sono riuscito. Avevo bisogno del turbamento che il raccontare attraverso quella voce mi dava, perché il turbamento è qualcosa di sgradevole in un certo senso, ma anche qualcosa di molto piacevole se si racconta di certe cose. Avevo necessità di conservare quel turbamento per continuare a scrivere la storia. Allo stesso tempo, il fatto che queste presenze, queste creature fossero totalmente non caratterizzate o non avessero nessun tipo di ruolo attivo all’interno della storia – perché c’era anche la possibilità che a un certo punto queste si manifestassero e cambiassero le sorti – se non quello di vedere, guardare e raccontare, di essere l’elemento di raccordo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ha rafforzato in me la sensazione di trovarsi al confine tra due territori.
Il tempo stesso sembra eterno, del resto…
Esattamente: il futuro è un tempo che non esiste nel romanzo, c’è moltissimo il tempo passato ma è trattato come un tempo su cui il presente incide in maniera spaventosa, in quanto è il presente che racconta il passato e quindi è il presente che fa esistere il passato. Dunque si tratta di un passato spettrale, fantasmatico e quindi la temporalità delle tre coordinate classiche – passato, presente, futuro –, il fatto che queste coordinate si mescolassero grazie ai personaggi e ai loro dialoghi, che ci fosse un ulteriore livello narrativo rappresentato da queste voci, mi ha aiutato a mantenere l’ambiguità tra i momenti e i piani della storia. Una storia che per certi versi è abbastanza statica che, come dici tu, assomiglia in effetti a un film di Tarantino – ma io aggiungerei a un film brutto di Tarantino, a uno di quei suoi film in cui tutto si risolve con una sparatoria senza senso. Io la sparatoria senza senso non c’è l’ho messa perché non ci stava, però la staticità delle situazioni, il fatto che tutto si svolge in luoghi chiusi e l’isolamento diventa una condizione necessaria per far esprimere i personaggi, immagino possa giustificare la tua osservazione che è assolutamente pertinente. Esiste questa azione di staticità che è l’opposto della nozione di trama classica, ci sono tantissimi personaggi e sì, ci si aspetta che a un certo punto uno di questi personaggi cominci a fare qualcosa trascinando tutti gli altri.
Il riferimento a Tarantino si ricollega al discorso dei modelli, letterari prima di tutto, come certamente Bolaño, Conrad e Vollmann. Per quanto riguarda invece i modelli cinematografici, mi vengono in mente i film d’exploitation, antesignani degli snuff movie. Anche il nome Birmania fa pensare a quei film degli anni ’70, o sbaglio?
Se ci pensi Joe D’Amato, colui che ha portato il porno industriale in Italia, si chiamava Aristide Massaccesi e a un grande produttore cinematografico che si chiama Aristide Massaccesi nessuno avrebbe mai dato credito. Comunque sì, i nomi sono funzionali a ricreare un certo tipo di suggestione legata alla realtà ma comunque distaccata perché il mondo del porno di cui parlo non esiste. È come se avessi immaginato un momento specifico che nella storia del porno non c’è stato, ma che comunque, per quanto fosse immaginario, doveva mantenere delle caratteristiche che lo connotassero e lo legassero a quello che invece è il porno reale. Poi ti dico, ci sono molte cose che in realtà sono abbastanza plausibili: quello che è universalmente considerato come uno dei grandi capolavori della storia del cinema porno, The opening of Misty Beethoven di Metzger, è ispirato a Pigmalione di Shaw. Quindi sì, diciamo che il riferimento a situazioni, sia letterarie che cinematografiche, è abbastanza naturale perché questa è la mia vita, la mia biografia. Non mi interessa raccontarlo per quello che è, ma invece raccontare quello che io vivo filtrato da quello che leggo. È la mia prospettiva personale di ciò che invece è un quotidiano abbastanza normale. Non sono uno che ama raccontarsi, né uno che ama fare di se stesso un personaggio o mettersi in prima persona a vivere una storia perché sarebbe impossibile da credere, per me stesso innanzitutto. Se io mi rendessi protagonista di un romanzo ambientato durante una spedizione sul Rio delle Amazzoni sarei uno scemo, e probabilmente sarei il primo a morire.
Per quanto riguarda invece gli autori a cui devo molto, come hai detto tu, Bolaño sicuramente; Bolano è uno degli autori che amo di più e che si è portato dietro i vari Roberto Arlt, Osvaldo Lamborghini e tutta quella letteratura sudamericana post Borges, che è un po’ figlia di Borges ma che fa quello che Gombrowicz aveva suggerito di fare agli amici di Buenos Aires, ovvero di uccidere Borges.
E noi chi dobbiamo uccidere invece?
Noi? Nessuno perché non siamo assassini, non siamo mai stati bravi a essere assassini con personalità in Italia. E poi in Italia non abbiamo qualcuno così ingombrante come Borges.
Dunque anche tu sei d’accordo con Saba quando diceva, in Scorciatoie e Raccontini, che gli italiani non sono un popolo di parricidi ma di fratricidi.
Sì, è verissimo. Dobbiamo smetterla di ammazzare i nostri fratelli perché tanto non ci serve a niente, se non a vivere in una prospettiva sbagliata. Per quanto riguarda la letteratura, credo che ammazzare i nostri contemporanei sarebbe molto più coraggioso se lo facessimo fisicamente piuttosto che con l’astio e con il risentimento che dimostriamo, che finisce per alimentare unicamente il chiacchiericcio letterario, che è quello che tiene in vita tutti noi e che ci fa sentire così tanto speciali.
Nel tuo libro dunque gli elogi e i riconoscimenti verso altri scrittori sono parte integrante della struttura. Non a caso una delle recensioni più belle di Dalle rovine è stata quella di Giorgio Vasta che affermava che tu cerchi «l’oggetto più autentico del desiderio letterario».
Sì, è così. Il libro è pieno di citazioni, magari non dichiarate apertamente, ma è strapieno di citazioni messe in bocca ai vari personaggi. Vengono citati Danilo Kiš, Roberto Arlt, Kafka… Non ho paura a far parlare i miei personaggi come se fossero lettori che hanno sfogliato le stesse pagine che ho letto io, anzi, penso che sia una cosa che, da un certo punto di vista, mi caratterizza. Il fatto che, mentre cerchi di dimostrare qualcosa, ti venga in mente qualcuno che, molto prima di te, con discorsi molto meno complessi dei tuoi e molto più immediati dei tuoi, è riuscito a dire esattamente quello che tu vuoi dire, porta a una duplice scelta: o smetti di parlare oppure ti prendi la responsabilità di usare le parole di qualcun altro. Ma questo comporta anche il fraintendimento: le parole degli altri, soprattutto se estrapolate, rischiano di creare un enorme fraintendimento.
All’interno di Dalle rovine citi un mito, quello di Pitone che scende dal monte Parnaso. Il serpente è una figura che ritorna in tutte le religioni e in moltissimi libri.
Il mito a cui faccio riferimento è in Ovidio, nelle Metamorfosi. La citazione che dici tu è inserita in un punto preciso della storia, nell’ultima pagina: Rivera è definitivamente l’uomo che si è allontanato dall’umanità, che è diventato qualcosa di diverso dall’umanità, attraverso un processo di trasformazione, e si è identificato più con i suoi rettili che non con i suoi simili. Rivera diventa il serpente che scende dal monte Parnaso poiché, dopo l’isolamento che ha vissuto nella seconda metà del romanzo, segregato nella villa e quindi una specie di Parnaso dove non ci sono i poeti ma gli assassini, abbandona la casa e dunque scende dal monte.
Invece la citazione puntuale del mito sta a pag. 123: il produttore Traum, parlando del suicidio di Birmania, gesto incomprensibile che nessuno riesce a interpretare, dice che gli uomini non possono capire, che gli uomini sono ciechi. Quelli che invece possono capire, che si trovano allo stadio elementare della comprensione e quindi a quello più immediato e vitale sono i cani, gli uccelli, i serpenti ecc.
«Dal giorno in cui il primo serpente scese strisciando dal monte Parnaso, i serpenti e le altre bestie che abitano l’oscurità sono destinate a capire e a morire, e muoiono per mano di coloro che vivono alla luce del sole…»
Traum ricorda il passo in cui Ovidio fa riferimento alla nascita del serpente e alla sua manifestazione sul Parnaso. Un giorno questo serpente gigantesco scende il monte per andare ad abitare tra gli uomini e Apollo lo uccide con mille frecce e quindi questa consapevolezza istintiva e bestiale viene bloccata, fermata dall’intervento del dio che è per definizione il dio del lato luminoso dell’umanità. Viene dunque impedito a questa bestia divina di strisciare tra gli uomini.
È un passo molto breve delle Metamorfosi, ma molto esplicativo.
Stai leggendo Tempo di spettri di Leo Perutz. Che progetti hai?
L’ho appena iniziato perché sto leggendo solo libri ambientati in Europa centrale, è questa l’ambientazione che sto cercando adesso. Vorrei ricominciare a scrivere una cosa che avevo lasciato quando Santoni è arrivato per fare l’editing di Dalle rovine. Una storia piuttosto lunga e complessa che si svolge sia ai giorni nostri sia in un tempo futuro non specificato che sto studiando. Sto leggendo molto, ma non solo romanzi. Spero di poter tornare presto a scrivere.
La chiacchierata è proseguita oltre, a registratore spento. Quando ci siamo lasciati ho confessato a Luciano i miei tempi biblici nello sbobinare le interviste. Lui mi ha sorriso, mi deve aver preso alla lettera. Comunque ora l’intervista è finalmente pronta. E i tempi, forse più maturi di quanto non lo fossero allora.
(Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunué, 2015, pp. 184, euro 9,90)