Libri
Roma è una città immaginaria: intervista a Yari Selvetella
Da “Roma Criminale” a “La banda Tevere”
di Anna Giurickovic Dato / 13 giugno
«Che tu possa vedere nulla di più grande della città di Roma», si era partiti così. Che Roma sia grande, nessuno sembra averlo messo mai in dubbio. Da Goethe, che arrivando nella capitale del mondo disse di essere tranquillo e acquietato per tutta la vita. «Tutto è come lo immaginavo», diceva, «tutto è nuovo. Non ci deve abbattere il pensiero che la grandezza è passeggera». Oggi si parla della Roma delle periferie, della Roma slabbrata e incapace di contenere, della Roma abusata e del suo tramonto. Yari Selvetella (1976), giornalista e scrittore, ha raccontato la Roma del crimine con la trilogia saggistica composta da Roma criminale (Newton Compton, 2009) – scritto a quattro mani con Cristiano Armati –, Banditi, criminali e fuorilegge di Roma (Newton Compton, 2010) e Roma. L’impero del crimine (Newton Compton, 2011) e con i romanzi Uccidere ancora (Newton Compton, 2009) e La banda Tevere (Mondadori, 2015, pp. 246, euro 17). Protagonista dell’ultimo romanzo è Mario Urbani, detto Tevere perché un giorno si buttò nel fiume da ponte Sant’Angelo. Tevere ha cinquant’anni, è povero e fresco di galera. Ha tutta la voglia di vivere, finalmente, una vita pacata e tranquilla nella sua baracca a Tor de’ Schiavi, ma, per correre in aiuto al suo unico amore, la figlia Monya, dovrà reinventarsi e rimettere in piedi la vecchia banda. La banda Tevere è un romanzo che contiene in sé l’ironia della commedia italiana, la suspense del poliziesco e la nostalgia di Roma. Ho incontrato Yari per una breve pausa pranzo a Piazza Cavour.
Parliamo della tua città. Racconti la periferia, le borgate ai tempi della crisi. Ne metti in luce gli aspetti più cupi e logori. Un dipinto malinconico di quello che non è più, che vede solo antieroi e nessuna salvezza. Roma: amore o odio?
Ritengo che su Roma si siano stratificate delle narrazioni che hanno creato, come spesso accade, una città immaginaria, una nuova Roma degli scrittori che a differenza del passato – la Roma indolente, quella felliniana di La dolce vita, del “volemose bene” – si è ribaltata, tramutandosi in una Roma post-apocalittica. Con La banda Tevere ho voluto fare un’operazione di mediazione fra queste due città. Se ci pensi, L’orologio di Levi o La dolce vita e La grande bellezza non sono opere di romani. Roma è una grande metafora e ognuno ci proietta le proprie emozioni e debolezze. Roma è spesso un mezzo e raramente diventa un fine. Io ho creato dei personaggi e ho pensato di raccontarli non attraverso le tinte fosche ed eroiche che vengono normalmente usate per raccontare gli eroi neri della criminalità, ma tentando invece di restituire loro una verità attraverso il linguaggio della commedia. Così, ho voluto ambientare la mia storia in una periferia a ridosso del Raccordo Anulare, per raccontare di questa cintura di Roma.
Io la amo molto la mia città, ma sono arrivato a una sorta di saturazione. Tuttavia, nonostante la saturazione non riesco a non amarla. Il vero problema con Roma è che qualsiasi cosa tu voglia dire, è difficilissimo riuscire a non essere ridondanti. Mi piacerebbe togliermela dalla memoria e ricominciare a capirla adesso.
Gli scrittori raccontano la borgata nei propri libri, i registi vi ambientano i propri film. A volte sono focolai culturali, altre volte sono luoghi invivibili. Associazioni che aprono e associazioni che chiudono. Ultimamente Christian Raimo, con un articolo sulla Roma che muore, ha acceso un’intensa discussione sul tema. Sempre più spesso si parla delle periferie di Roma. Da dove nasce, secondo te, questa tendenza?
A settembre 2015 è uscito Non essere cattivo, poi Lo chiamavano Jeeg Robot e il film dei The Pills. Mi hanno fatto pensare che anche loro hanno guardato con un interesse più complesso le vicende della periferia e dei suoi personaggi. Sembra che uno sguardo su questi temi sia diventato necessario. Probabilmente, chi viene da fuori è in cerca di suggestioni che vengono dalla Roma di Pasolini, gentrificata, un po’ popolare e un po’ fighetta, sempre alla disperata ricerca di un’identità. A Roma c’è una scarsa consapevolezza di appartenere a una comunità. Proprio guardando a quest’altra Roma, penso che le possibilità di scolarizzazione, di vita sociale, di sport che vengono offerte siano sempre meno. Ci sono interi quartieri che vengono lasciati alla deriva. Chiude il teatro di Tor Bella Monaca ed è una perdita seria. Milioni di persone stanno crescendo analfabete, che ci sia un problema effettivamente è innegabile. Non c’è neanche un pubblico. Prima si era fatto un buon lavoro sui teatri di cintura, le biblioteche. Oggi, invece, la cultura è riservata a una piccola parte della città.
I luoghi di Roma che racconti: come li conosci?
Sono cresciuto a Due Leoni, quartiere di periferia attaccato a Tor Bella Monaca. Da ragazzi io e i miei amici avevamo l’idea di conquistarci Roma. Salivamo su uno di quegli autobus che ci mettevano due ore e mezza ad arrivare, ma almeno arrivavano. Oggi quest’idea non c’è proprio, in periferia c’è solo il senso dell’abbandono. Essendo di borgata, le borgate le conosco, la mia vera patria è proprio questo “non luogo”. La mia patria è la non patria. Ce ne stiamo sul confine, là dove la città comincia a essere composta da vuoti, ma allo stesso tempo ha un’identità forte.
Da dove nasce il tuo interesse per la criminalità?
Nasce tutto dall’ossessione per Roma. Non ero interessato alla cronaca nera ma pensavo che la storia del crimine fosse un modo per raccontarla. Quello che mancava a inizio degli anni duemila era una visione meno edulcorata di Roma. Della Roma criminale non si parlava mai. Roma era considerata città gaudente, sbracata, non si voleva raccontare del suo passato oscuro. Bracci ammazzata da un pedofilo, Giro Limoni, il caso Moro, le sorelle Cataldi: sono stati momenti in cui la città ha dimostrato qualcosa di sé. Io volevo raccontare la storia popolare di Roma e l’ho fatto attraverso il crimine.
Come è avvenuto il tuo passaggio dalla saggistica alla narrativa? Come nasce La banda Tevere?
Nel corso delle ricerche fatte ai fini di cronaca, alcune storie, anche storie marginali, mi hanno colpito talmente tanto che ho cominciato un po’ a vederle nella testa. Alcuni personaggi mi sono rimasti in mente per i loro nomi, per la particolarità delle loro vicende. Ho una lunga frequentazione di bar di periferia, di autobus, di persone che queste esperienze le hanno vissute davvero. Ho sempre cercato di non dimenticarmi mai dell’umanità, anche di chi sbaglia. Sono tutti dei falliti, ma sono anche tutte persone che, nonostante il fallimento, cercano una strada per darsi un’altra possibilità, un diritto che penso sia dovuto a ciascuno. E questa è la possibilità che ho dato a Tevere.