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Libri

“L’addio”
di Antonio Moresco

L’ineluttabilità della violenza raccontata come in uno sparatutto

di Gabriele Sabatini / 21 giugno

«Mi chiamo D’Arco, e sono uno sbirro morto». L’eroe fragile dell’ultimo romanzo di Antonio Moresco, L’addio (Giunti, 2016), primo degli esclusi dalla cinquina del Premio Strega 2016, non senza polemiche, si presenta con poche e apparentemente lineari parole, ma bastano alcune pagine per accorgersi che quella linearità è fugace e ingannevole, e che la posta in gioco è un’altra. Ed è vertiginosamente alta, perché in L’addio c’è un concetto di tempo che si avvolge su se stesso, la duplicità della città – dei vivi e dei morti – e un male incistato che non ha soluzione. Moresco si getta nell’abisso dell’uomo che genera una violenza tanto intensa da essere esasperante per gli stessi carnefici; in una malvagità intrinseca che auspica il proprio sfogo nella macabra macchina di uno sterminio fisico, ma anche sessuale e psicologico, sistematico e organizzato. E questa volta le vittime non sono “altro dai persecutori”, non un popolo, non i fedeli di una religione: le vittime sono quei bambini che ogni giorno incontriamo in strada, sono i nostri figli. Letteralmente, perché nella scrittura di Moresco nemmeno le madri hanno minori colpe. Il mondo di L’addio è una megalopoli planetaria di un futuro non troppo remoto, in cui i lunghi viali soffocano sotto i grattacieli. La sensazione è che lo spazio per la vita serena venga a mancare, in questa megalopoli che si estende a perdita d’occhio, tutta tesa verso i quattro punti cardinali e stracciata verso l’alto. È ovunque, la città, anzi, le città, quella dei vivi e quella dei morti, con la seconda infinita e in continua crescita, come fosse un universo in espansione fatto di alveari di cemento, affollati e lugubri, in cui i defunti non hanno requie, perché la morte è un mondo identico a quello dei vivi. È questa l’eternità della condanna: la morte che è già nella vita.

E se davvero è così, cosa viene prima e cosa dopo? Dov’è l’origine del male? È nella vita o nella morte? O dalla morte torna nella vita? Sono queste le domande, continue, assillanti, che si trovano in quasi tutte le pagine del libro con una ridondanza tale da gettare nell’inquietudine, costringendo a una lettura tutta scatti e sussulti, che abbisogna di un fisico partecipe. Ma le domande restano sempre le stesse, ripetute come un mantra, come una litania laica che non ha pausa per respirare e farsi teorema. È difficile leggere L’addio se non si determina il limite preciso di tematiche gravi e profonde, al di qua delle quali esiste il personaggio D’Arco e la sua mai meditata, mai soppesata, e in qualche modo entusiastica scelta di prender parte a una missione sanguinosa: tornare nella città dei vivi e vendicare tutti quei bambini uccisi dalla barbarie. Una missione «senza speranza» nella quale si lancia con un’incoscienza insolita per un veterano, obbedendo alle indicazioni di un personaggio di cui il protagonista non conosce che la sagoma.

Senza speranza, si diceva, ma con un arsenale a disposizione che conta «due pistole, un fucile di precisione, un mitra con visore notturno e mirino laser, una mitragliatrice a canne rotanti su treppiede, nastri, caricatori, una balestra a infrarossi, frecce, un coltello e una spada corta, un gps con le tracce già caricate» e un cannone. È il menù di un libro rumoroso, che una volta chiuso costringe i timpani a vibrare oltre, per lo scoppio di migliaia di colpi di mitra e il diluvio di bossoli sul pavimento; un libro in cui si perde il conto dei morti ammazzati da D’Arco, uomini sorpresi nel compiere i loro riti barbarici, fulminati dalla rabbiosa disperazione del personaggio vendicatore. Li vediamo accasciarsi uno dopo l’altro, livello dopo livello, come in un videogioco. Assistiamo alla caduta del protagonista – che perde i sensi ferito – ma appunto come in un videogioco il combattimento non ha fine se non quando D’Arco, dopo aver attraversato disorientanti corridoi, incontra il mostro finale, l’Uomo di luce.

Non basta, dunque, rendersi conto che le parole dei singoli carnefici, se lette come un corpus unico, compongono la narrazione di un male sotterraneo che potrebbe erompere, prima di quanto si possa immaginare, nel nostro mondo: in quello spicchio di realtà che ogni mattina vediamo fuori dalla finestra. Si tratta di un male che si alimenta con l’idea che «i comportamenti delle donne e gli uomini di questa specie non sono diversi da quelli dell’ultima colonia di scimpanzé. […] Tutto il resto, quelle cose che hanno chiamato sentimenti, ideali, amore, sono solo chiacchiere di copertura e inganni su cui hanno costruito quella grande menzogna che hanno chiamato civiltà». Non basta rendersi conto che la città di Moresco è sì una megalopoli del futuro, ma non così dissimile dalle immense conurbazioni che già conosciamo. Non basta, se la gran parte della lettura è spesa rincorrendo raffiche di domande troppo uguali e corpi che cedono alla morte abbattuti da proiettili di un qualche calibro, o sviscerati da una qualche lama.

Sopito il caos della battaglia, spente le luci accecanti del videogioco, sopravvive la messa in guardia, l’allerta, il grido d’aiuto che l’autore lancia ai membri, ai custodi quali tutti siamo della nostra specie. È questo l’addio di Moresco, quello diretto al lettore a mo’ di prologo, e non è dato sapere se si trasformerà in un arrivederci, ma se così non fosse sarebbe allora un addio a una società che davvero non ha ragion d’essere: «Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come sono configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene immiserita e rimpicciolita, anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni anelito si trasforma in delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la ristrettezza di orizzonte, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione».

 

(Antonio Moresco, L’addio, Giunti, 2016, pp. 288, euro 15)

LA CRITICA - VOTO 5/10

Un libro in cui i temi, profondi, terribili, che condannano ciascuno di noi, vanno letti schivando le migliaia di colpi di mitra e i tonfi di decine di corpi che cadono morti come in un videogioco.