Libri
“La reliquia di Costantinopoli” DI PAOLO MALAGUTI
di Ilaria Caputo / 26 settembre
«Le ultime assi di legno hanno ceduto, l’interezza dello scheletro di Gregorio è ora esposta ai miei occhi, posso contare tutte le sue ossa. […] Quanto sto compiendo è evidentemente folle, ma è stato lui a chiedermelo, a farmi giurare. Ricordo che quando chiusero la bara fui io stesso a riporre l’involto dietro la sua testa, al posto del cuscino di stracci. Se avessi lasciato la salma alle cure dei monaci di San Giorgio, non sarei riuscito a esaudire il suo ultimo desiderio».
Un capogiro. Riemergere dalla lettura di La reliquia di Costantinopoli di Paolo Malaguti (Neri Pozza, 2015) provoca un capogiro tale che servono diversi istanti prima di riprendersi, prima di capire, con esattezza, dove ci si trovi dopo aver percorso, senza sosta e carichi di tensione sfibrante, i sotterranei di una delle più misteriose città del mondo: Costantinopoli.
Costantinopoli ambigua, Costantinopoli dai mille volti: tutti e nessuno le appartengono. È forse quest’aura d’incerta identità che fa della Nuova Roma lo scenario più adatto per intrecciare realtà storica e fantasia, per ospitare la gestazione di un’avventura che, grazie alla versatile penna di Paolo Malaguti, proietta e immerge in una dimensione “altra” dalla quale è realmente difficile fare ritorno dopo averla attraversata e conosciuta e vissuta attraverso gli occhi del suo protagonista.
La reliquia di Costantinopoli inizia nel 1565, a Venezia, nel campo santo di San Zaccaria. A seguito di un’ordinanza comunale, si è deciso di liberarsi delle vecchie salme per far posto ai nuovi morti, ma tale operazione rischia di portare alla luce un segreto che Giovanni non può permettere venga svelato. Fedele all’ultima volontà del suo precettore Gregorio Eparco, cinquant’anni prima, quando il suo maestro lo aveva convocato in punto di morte, Giovanni aveva sepolto insieme con lui un prezioso e antico volumetto che l’anziano maestro lo aveva pregato di nascondere sotto la sua testa, in luogo del cuscino funebre. Giovanni si occupa personalmente della sepoltura di Gregorio, affinché la sua volontà venga rispettata, ma, ora, è necessario fare altrettanto: occuparsi di disseppellirlo per continuare a nascondere al mondo l’esistenza dell’antico volume.
Corrompendo un pissigamorti, Giovanni – ormai gli stessi anni di Gregorio all’epoca della sua morte –, riesce nell’intento, solo, stavolta, non può non disobbedire, non può non infrangere la segretezza celata all’interno di quelle pagine e apre e legge. Ed è nell’infrangersi di quella promessa che ha inizio la storia, mirabolante, crudele, poetica dell’assedio a Costantinopoli, riportata, sotto forma di cronaca, dallo stesso Eparco, in quel che Giovanni scopre essere il diario del suo maestro.
L’atmosfera cambia repentinamente. 1452, Adrianopoli. Qui, Gregorio Eparco, in viaggio d’affari insieme all’inseparabile socio e amico Malachia Bassan, assiste impotente alla raccapricciante esecuzione di una compagnia navale proveniente dalla Serenissima, accusata di non aver osservato le direttive impartite dalla fortezza di Boghaz-kesen, fatta costruire da Maometto II. Quell’atto turpe è soltanto l’inizio di una scia in crescendo di esecuzioni che porteranno il sultano a dispiegare, come fine ultimo della sua nuova politica dittatoriale, le sue immense risorse militari per cingere in un assedio lungo e spaventoso la città di Costantinopoli.
Il diario di Eparco altro non è che il racconto dei giorni dell’assedio, una narrazione cruda e dettagliata delle violenze, delle turpitudini, delle distruzioni perpetrate dai turchi ai danni dei costantinopolitani e, ancor di più, il racconto della tensione psicologica che soggioga un intero popolo nell’attesa di un attacco che sembra non voler essere mai sferrato. La crudeltà dei nemici si misura, infatti, sull’intensità del panico psicologico che riescono a diffondere – dall’esterno all’interno delle mura – mediante la presenza dell’esercito invasore che, per settimane, rimarrà immobile, percepibile non con gli atti, bensì col suo alito minaccioso di terrore e orrore.
I dettagli dell’avvenimento storico, lo studio sociologico delle masse di fronte alla possibilità di eventi catastrofici, denotano da parte di Malaguti un lavoro di documentazione vasto e approfondito. Ciò di cui ci si rende conto al termine della strabiliante lettura, è proprio la preparazione sottesa alla scrittura del romanzo. Lo stile, la lingua, le molteplici nozioni artistico-architettoniche, religiose, storiche, concorrono a fare di La reliquia di Costantinopoli un romanzo irrinunciabile, soprattutto per gli estimatori del genere.
Realtà storica e fantasia si amalgamano in La reliquia di Costantinopoli per raccontare il tentativo di Gregorio Eparco e di Malachia Bassan di salvare, metaforicamente, l’anima della città. Un progetto ambizioso, ma non impossibile, che si snoda in maniera serrata tra peripezie, difficoltà e risoluzioni di arcani enigmi. Al ridestarsi da un sogno ricco di simbolismi, Gregorio capisce di essere stato investito da una missione “divina”: recuperare e portare in salvo le reliquie sacre, le quali, nel corso dei secoli, sono state nascoste nei sotterranei di Costantinopoli. L’impresa non salverà la Nuova Roma dalla distruzione, ma permetterà di metterne in salvo l’essenza sacra, di sottrarla allo scempio che, da lì a poco, i turchi attueranno.
Decisamente dantesca la discesa nel labirintico sottosuolo della città; mentre si segue con ansia il ritrovamento delle reliquie sacre, non si può fare a meno di percepire la presenza discreta delle ombre di Dante e Virgilio. Un riecheggiare continuo della Commedia accompagna l’esplorazione dei luoghi misterici ormai dimenticati: la missione divina, la salvezza dell’anima e, dal punto di vista dello stile, l’uso frequente di metafore e similitudini.
Una lettura impegnativa, quella di La reliquia di Costantinopoli, una prosa elaborata, a tratti poco fluida, ma anche brani permeati da un lirismo commovente. Quando la descrizione del dato oggettivo si fa pesante, ecco che Malaguti irrompe col sentimento e regala frammenti poetici indimenticabili, attraverso i quali si sprigiona l’interiorità emotiva delle sue creature:
«E fu a quel punto che si compì il miracolo. Come una gigantesca tenda che venga lentamente sollevata, o come il crepuscolo dell’alba rivela agli occhi del pellegrino, perdutosi in una selva, i contorni degli alberi e delle rocce a poco a poco, sì che egli non riesce quasi a dire in quale momento preciso abbia iniziato a distinguere tra le tenebre, così la nebbia, sfilacciandosi pigramente sotto tiepidi refoli di vento, iniziò a scoprire tratti via via più larghi di cielo azzurro e nitido, sul cui fondo volano indolenti i gabbiani. Ma furono le rondini, con le loro traiettorie inconfondibili, tutte folli pieghe e fughe festose, a rivelarmi dove fosse la terraferma, quando questa era ancora avvolta dalla caligine, e a guidare il mio sguardo nella giusta direzione. Poi vidi qualcosa spuntare dalla nebbia. Ed era lei, la Città, la mia città, e mi accoglieva, si mostrava ai miei occhi, con il pudore verecondo e lieto dell’amante fedele. La gioia traboccò dal mio cuore, perché non avevo capito di essere già giunto a casa, e perché, soprattutto, non avevo mai visto la Città sorgere splendida dalle acque, come un diamante incastonato in una corona di zaffiri, come un monte cinto di nevi perenni che svetta tra i pascoli azzurri di Nettuno, come il volto della donna amata che, tra tutti gli altri volti, unico splende agli occhi dell’amante».
Una dichiarazione d’amore per Costantinopoli che fa immedesimare il lettore nell’attaccamento di Gregorio alla sua terra, alle sue origini e presentire il dolore di doverla lasciare per sempre, quando Maometto l’avrà definitivamente distrutta:
«È lì, la Città, ed è sempre lei, superba e maliarda, regina e meretrice, madre e amante di tutti gli uomini; esiste e resiste nonostante tutto, nonostante noi non le apparteniamo più, nonostante lei non appartenga più a noi».
(Paolo Malaguti, La reliquia di Costantinopoli, Neri Pozza, 2015, pp. 590, euro 18)
LA CRITICA - VOTO 8/10
Un romanzo che avrebbe meritato di entrare nella cinquina del Premio Strega. Malaguti sorprende per la capacità di saper sposare, sapientemente, gli antipodi, le anime opposte, le doppie facce di una stessa medaglia e per l’abilità di saper cucire, addosso al lettore, le vesti di un’epoca trapassata, regalandogli la vivida sensazione di stare attraversandola nel presente.