Libri
Il viaggio più misterioso di Rimbaud
Un enigma interiore prima ancora che geografico
di Enrico Macioci / 20 ottobre
Avendo letto molti libri su Arthur Rimbaud, credo che il solo approccio valido sia quello “misto”. Rimbaud è stato un uomo e un poeta unico, diverso da chiunque altro; non lo si può dunque trattare con assoluta oggettività, pena il ridicolo; ma il suo mito non deve abbagliarci né mutarci in agiografi. Occorre regolarsi come con le belve feroci: prudenza e saldezza, la cui somma realizza un equilibrio. Se abbassi troppo la guardia Rimbaud ti azzanna, se la alzi troppo ti sfugge.
Il libro di Jamie James Rimbaud a Giava. Il viaggio perduto (Melville edizioni, 2016), a cura del bravo Fabrizio Ottaviani, mi sembra in tal senso perfetto. James è un autentico appassionato di Rimbaud e dunque avverte: «Attento, lettore: subire il fascino di Rimbaud provoca un entusiasmo spossante». James prende le giuste misure alla belva e se non la ammansisce, neppure se ne lascia divorare.
L’opera indaga la pagina più oscura dell’assurda vita di Rimbaud: il viaggio a Giava. Nella tarda primavera del 1876 egli si arruolò nell’esercito coloniale olandese ma disertò due mesi dopo a Salatiga, un accampamento sulle pendici del vulcano spento Merbabu, nel cuore verde e umido dell’isola di Giava. Il suo nome, presente negli appelli di mattina e sera fino al 14 agosto, dal giorno 15 scompare; e con esso anche il suo proprietario. Abbiamo di nuovo notizie del poeta nel dicembre del 1876 quando si trova a Charleville, dalla famiglia. Il periodo compreso fra agosto e dicembre, durante il quale Rimbaud non scrisse lettere né lasciò tracce di sé, scava un buco nero.
James ricostruisce i tentativi, a metà fra eroici ed esilaranti, dei volenterosi che nel corso del tempo hanno provato a riempire quel buco. Paterne Berrichon, il balordo marito della sorella di Rimbaud, ipotizza che il poeta «errò nell’isola di Giava nascondendosi entro temibili foreste vergini dove gli oranghi gl’insegnarono a difendersi dall’assalto delle tigri e dalle sorprese del boa» finché «non sopportando più questa esistenza da primate, con la scaltrezza di un indiano trovò la strada per Batavia sbattendosene delle autorità».
Enid Starkie invece, basandosi sulle notizie a disposizione (quasi nessuna delle quali, ahimè, ben salda), compie un’analisi certosina dei biglietti navali internazionali per concludere che Rimbaud poté tornare in Europa (a Queenstown, Irlanda) solo sulla Léonie oppure sulla Wandering Chief. Si sarebbe spacciato per l’inglese Edwin Holmes; un uomo che, a giudicare dai registri, pare sbucato dal nulla e nel nulla rientrato. Si staglia però all’orizzonte un gigantesco problema: secondo la sorella Isabelle, Rimbaud giunse a Charleville il 31 dicembre; invece secondo l’amico Delahaye già il 9… I conti insomma, come sempre quando c’è di mezzo Rimbaud, non quadrano. L’affannarsi furibondo della Starkie (e di molti altri sia prima che dopo di lei) per forzare la mano al giovane ribelle fa concludere con sarcasmo a Jean-Luc Steinmetz che Rimbaud si diede a una «frenetica gara contro il tempo pur d’arrivare puntuale all’appuntamento coi futuri biografi».
Il libro, snodandosi come un’appassionante e divertente detective story, ne approfitta per dipingere il mondo orientale di allora e di oggi, ma va oltre. James fonde il tema del viaggio e del mistero col più generale quadro delle vicende e delle liriche dell’enfant prodige. Parte da pochi, ma ben chiari e condivisibili presupposti: «Non c’è niente che si possa affermare di Rimbaud il cui contrario non sia altrettanto vero. […] Il paradosso è l’unica costante. Le sue creazioni diventano più misteriose quanto più il lettore vi si avvicina». E con coerenza ne ricava: «Quanto più ci si immerge nella vita di Rimbaud, tanto più essa sembra un acrostico risolto a metà, in cui ogni nuova risposta rende dubbia la precedente. Però, dopo tutto, dire che è impossibile individuare l’itinerario percorso da Rimbaud nel 1876 per andare da Giava a Charleville non è così diverso dall’ammettere che è impossibile stabilire con certezza cosa significhi Il battello ebbro».
Per risolvere poi con amarezza, mista alla strana ammirazione che solo Rimbaud sa suscitare: «Pochi anni dopo, in Abissinia, l’ex poeta studierà scienza e ingegneria. Nel 1880 scrisse alla madre pregandola di inviargli ventisette libri, fra i quali alcuni trattati di metallurgia, idraulica, telegrafia nonché saggi dedicati ai piroscafi a vapore, alle immersioni in acque profonde e alla fabbricazione delle candele. La letteratura era completamente scomparsa dalle sue letture. Quante miglia, nel 1876, avesse attraversato dell’oceano che separa lo spirito dalla materia non lo sa nessuno, perché Rimbaud non lasciò traccia della sua vita interiore durante gli anni della sua personale Egira, prima che riconoscesse nell’Africa la sua destinazione finale».
Il buco nero insomma non è geografico ma psichico. James con acume osserva: «Nel periodo del viaggio a Giava l’esistenza di Rimbaud mutò così profondamente che a volte si ha l’impressione che, come in un racconto di E.A. Poe, un lugubre sosia abbia sostituito il giovane brillante che nel 1872 aveva sedotto Parigi». Del resto l’esperienza di Rimbaud possiede una concentrazione così sovrumana che i cambiamenti, più che succedersi, si sciolgono l’uno dentro l’altro, cosicché discernerli si riduce a un miraggio.
Nella postfazione del curatore, Fabrizio Ottaviani, un altro spunto mi colpisce. L’abbandono della poesia alle soglie dei vent’anni resta, dei tanti atti scandalosi compiuti da Rimbaud, il più enigmatico e affascinante. Io per parte mia ho sempre provato sana invidia nei confronti di questo ragazzo, capace di staccare la spina da un qualcosa – morto o vivo che fosse – di così grande; seppure infatti la musa lo aveva abbandonato (o lui aveva abbandonato lei), quante incrostazioni d’orgoglio, angoscia, gioia e dolore dové strappare a viva forza dal nucleo della propria anima? Quanto abisso dové ingoiare? Ottaviani avanza l’ipotesi, cui mai avevo pensato, che «dietro il nostro gridare allo scandalo si celi una forma obliqua di compiacimento. Anche lui, ci diciamo, è stato costretto a sbarazzarsi delle cose più notevoli che possedeva, e che lo intralciavano, per sopravvivere al pari di qualsiasi altra comune bestia darwiniana».
Ecco, non concepisco il brusco e irrevocabile silenzio di Rimbaud in simili termini; comprendo che lo si possa fare, ma non ci riesco. Per me vale l’opposto: la sua metamorfosi, benché tragicamente nichilista, lo innalza a vette inesplorate d’autocoscienza e lo scaglia in un luogo ignoto, dove ancor oggi ci attende. Abbracciare senza riserve la “rugosa realtà”, per un mistico del suo stampo, equivale ad aver già spezzato la schiavitù dalla materia. Ma, anche e soprattutto in questo caso, la verità «che forse ci sta intorno coi suoi angeli in lacrime» non la sapremo mai.