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Sylvia Plath, poetessa oracolare
“Sylvia Plath. Il lamento della regina” a cura di Leonetta Bentivoglio
di Cecilia Monina / 19 febbraio
Sylvia Plath non aveva paura della morte. Temeva la morte dell’immaginazione, questo è certo: «quando il cielo là fuori è semplicemente rosa e i tetti semplicemente neri», scrive in una pagina di diario del 1956. Ma la morte corporea non la spaventava. Leonetta Bentivoglio lo racconta in maniera esemplare nel suo Sylvia Plath. Il lamento della regina, uscito per Edizioni Clichy, nella collana Sorbonne.
La vita della poetessa è qui condensata in neanche un centinaio di pagine, rapida e intensa come fu vissuta: un percorso a ritroso che comincia dall’indomita teatralità del suicidio e tocca il rapporto passionale e furibondo con Ted Hughes, gli scontri accesi con la madre, l’eros «spellato e incontrollato». Tutto si ricongiunge ad Ariel, raccolta ultima e conclusiva, che sarà pubblicata postuma nel 1965. Buona parte delle poesie di Ariel risalgono invece al 1962, l’anno che precede la morte di Sylvia, periodo in cui, dice la Bentivoglio, la poetessa è come posseduta da un demone che le permette di entrare «a passi da gigante nel proprio maleficio». La Plath ha il viso scavato di occhiaie profonde e si leva presto al mattino: scrive nelle prime ore del giorno, puntuale dalle quattro alle sette, in tempo per accudire i bambini. Compone trentanove poesie in due mesi – molte delle quali sono oggi considerate tra i suoi versi migliori – ed «entra nella compiutezza della propria vocazione» agognando il gesto estremo, disperato e scenico, che avrà luogo in quell’undici febbraio di cinquantacinque anni fa.
Sylvia Plath sembra incarnare la Lady Lazarus di cui racconta, in grado di morire e resuscitare e poi darsi a morte certa e spettacolare. Scriveva che «Morire / è un’arte, come qualunque altra cosa. / Io lo faccio in modo magistrale». La poetessa sembra allora seguire alla lettera il copione che dovrà guidarla all’ultimo atto, un copione in cui è la sola protagonista. Si alza presto, prepara la colazione ai figli – mostrandosi madre premurosa e serena – e poi infila la testa nel forno: cala il sipario. «Sylvia ricatta i posteri con la propria teatralità», scrive la Bentivoglio, obbligando il lettore e il critico a cercare così un’interpretazione del gesto, una chiave di lettura che possa ricondurre il rituale della morte a un’unica ragione fondante. Ma non è mai stata trovata una risposta chiara ed esauriente; non si può certo pensare a un mero gesto di rivolta verso il marito, perché significherebbe ridurre la figura di Sylvia a quella di una moglie frustrata e umiliata, né si può gridare al messaggio politico, come più volte la critica ha tentato di fare, appigliandosi a quel «peso dei secoli» da cui la Plath si sentiva oppressa, schiacciata.
Sylvia Plath. Il lamento della regina ha il merito di mostrarci la giovane poetessa americana nelle sue fragilità, nelle ossessioni e le invidie, attraverso gli spettri che la guidavano quando componeva i suoi versi, sfatando così l’immagine di donna forte e sicura che è stata fatta emblema di un moto femminista che ha tentato di ingabbiare la sua arte in una categoria ideologica: «Sylvia è stata troppo un vessillo delle donne, trasformandosi suo malgrado in uno schema». Queste cento pagine hanno dunque il pregio di mostrarci la poesia della Plath per quello che è stata, e che continua a essere, lontana dalle etichette della poesia confessionale, spesso in contrasto con la Sylvia dei Diari, quella più intima, posata e riflessiva, una poesia intessuta di simboli, che rompe la campana di vetro e arriva alla tragicità della specie, facendosi, infine, oracolare.
Sylvia Plath. Il lamento della regina, a cura di Leonetta Bentivoglio, Edizioni Clichy, 2017, 160 pp., € 7,90.
LA CRITICA - VOTO 8,5/10
Leonetta Bentivoglio traccia un profilo accurato di Sylvia Plath, con un percorso a ritroso che va dal suicidio alla vocazione poetica. Un ritratto struggente, sintetico e profondo che scava nella vita della poetessa americana, tenendosi lontano da ogni ideologia.