Libri
Prima che il vento si porti via questa polvere americana
“American Dust” di Richard Brautigan
di Cecilia Monina / 16 marzo
Di American Dust di Richard Brautigan (minimum fax, 2017) si è scritto molto: si è parlato degli Stati Uniti post-conflitto, della dissacrazione dell’american dream, della grande crisi che fa da collante tra le vite dei personaggi. Si è parlato di Richard Brautigan come icona e autore di culto negli anni delle grandi contestazioni pacifiche, del suo Pesca alla trota in America – il romanzo che lo ha consacrato intellettuale di riferimento di un’intera generazione di beat – e poi si è a lungo discusso dell’alcolismo e di quel colpo d’arma da fuoco con cui, a soli quarantanove anni, si uccise nella sua casa di Bolinas, California. Era il 1984, la memoria collettiva aveva da tempo dimenticato il suo nome.
Mi sembra che American Dust (già apparso in Italia nel 2012 per le edizioni ISBN) abbia molto a che fare con questo, cioè con l’oblio, e con la difficoltà che taluni incontrano nel dimenticare le cose, nel riporle in un cassetto per poi convincersi di poter scordare con altrettanta dimestichezza dove si era nascosta la chiave.
American Dust ha per protagonista un tredicenne senza nome, soprannominato Whitey, un adolescente americano qualsiasi dell’Oregon che vive coi suoi genitori non lontano da un lago, luogo attorno a cui orbita la sua intera vita consumata al di fuori della scuola. Whitey ha prospettive esistenziali che si risollevano non appena i genitori sono in grado di comprargli un nuovo paio di scarpe da tennis, si riempie le tasche di penny portando a rendere le bottiglie di birra che il custode della segheria gli regala a ogni visita e spende buona parte della sue giornate nel rito intimo e connaturato dell’osservazione. La vita di Whitey è interamente volta al ricordo e American Dust è, tra le tante cose, anche una rassegna di immagini vivide, depositate laddove la memoria si fa più dolorosa e vicina alla morte, e poi tirate fuori ed esorcizzate attraverso il racconto.
Whitey ricorda l’appartamento in cui i suoi si erano voluti trasferire nel 1940, annesso a un’impresa di pompe funebri. Ricorda lo sgabello che pressoché ogni mattina, scrupolosamente, avvicinava alla finestra per guardare e vegliare dall’alto i cortei funebri. Ricorda le sfilate di fiori e di abiti neri, le macchine che seguivano il carro, e infine il silenzio che copriva la strada. Ricorda le mani sempre gelide della figlia dell’impresario, le scuse per non doverle mai stringere alle sue, e poi il repentino trasferimento che si portò via i primi anni d’infanzia. Il ragazzo senza nome ripercorre la strada lenta che lo ha condotto al lago: le case ottenute coi sussidi, le serate passate coi suoi vecchi a fissarsi negli occhi perché la radio aveva smesso di funzionare, l’ansia di sua madre sussurrata a mezza bocca – «gas, gas, gas» – con la paura che la stufa scoppiasse. «Tengo l’orecchio premuto sul passato, come se fosse il muro di una casa che non esiste più», scrive a un certo punto Brautigan.
E qui arriviamo alla polvere, quella del titolo, quella che intervalla le pagine come refrain («Prima che il vento si porti via questa polvere… polvere americana»). Whitey ha vissuto l’adolescenza nella miseria, solo permettendosi di entrare cautamente nella vita di chi gli stava attorno: il custode della segheria, la figlia dei vicini morta per una polmonite, la coppia che appare sin dalle prime pagine del romanzo e che si porta dietro ogni volta, soltanto per andare a pescare, l’intero mobilio di casa su un van per poi adagiarsi sul divano e aspettare che qualche pesce gatto abbocchi. Sempre osservati da lontano, con circospezione e curiosità, guardando la minuzia con cui ogni giorno allestivano la scenografia per tirar su qualche pesce. Una specie di certezza, quella coppia, un punto saldo e con loro anche le lampade al cherosene. Whitey li studia da lontano, nascosto tra i fili d’erba, e vede in loro il simbolo della resistenza alla crisi e alla polvere che ha coperto ogni cosa con la sua patina di precarietà. I due sono l’ultimo baluardo dell’immaginazione americana, che l’io narrante guarda per un’ultima volta con nostalgia, prima che l’immaginario collettivo venisse completamente stravolto dalle reti televisive, dai piatti di plastica, dai cibi pronti Kraft, prima che l’American Dream assumesse connotati diversi e prendesse la forma di «una qualunque strada americana, costellata di ristoranti a catena».
(Richard Brautigan, American Dust, traduzione di Luca Briasco, minimum fax, 2017, 129 pp, € 16,00)
LA CRITICA - VOTO 9,5/10
American Dust è il racconto che dà voce alla memoria e all’oblio, è il dramma della morte vista dagli occhi di un ragazzino, la polvere che si deposita sul sogno americano.