Libri
Avanguardia centroamericana
“Farabeuf o la cronaca di un istante” di Salvador Elizondo
di Giovanni Bitetto / 12 aprile
La letteratura sudamericana – e in questo variegato calderone ci metteremo anche il Messico, patria del qui convocato Salvador Elizondo – continua ancora a sembrarci, dopo che quasi dieci anni fa la Bolañomania ha scoperchiato il vaso di Pandora, foriera di opere da scoprire come tesori nascosti. Le ragioni sono storiche, perché – dopo un trentennio passato a leggere opere cerebrali assemblate nelle aule di scrittura creativa del Nordamerica – la fame di vita della letteratura sudamericana ci appare come genuinità di ritorno; e culturali, perché gli scrittori sudamericani ricombinano gli stilemi europei in maniera sghemba, adottando uno sguardo obliquo che permette la creazione di forme nuove. In molti casi è un atteggiamento naturale, che ci meraviglia per la freschezza del procedimento, in altri invece è ambizione programmatica – e allora siamo nel territorio dello sperimentalismo, dell’avanguardia. Proprio a questa categoria si rifà Salvador Elizondo, che in Farebeuf o la cronaca di un istante – edito da Liberaria per la nuova collana di narrativa straniera Phileas Fogg – prende a modello l’avanguardia europea a lui contemporanea, ovvero quel nouveau roman che nelle opere di Robbe-Grillet, Claude Simon e tanti altri ridefiniva gli strumenti della letteratura per l’approccio alla nuova multiforme realtà nell’era del consumo.
La scrittura magmatica di Elizondo – che ricorda il laborioso inerpicarsi di frasi di un messicano d’adozione come Malcolm Lowry – si muove come un lungo flusso che muta nella narrazione, affastellando forme diversissime, tali da emergere e scomparire nel giro di qualche pagina, per poi riemergere poche pagine dopo. Nella penna di Elizondo appaiono lunghi monologhi, trascrizioni di verbali, trattati di fotografia e di anatomia, resoconti della storia messicana, interrogatori, dialoghi intimissimi. Sembra che l’istante descritto da Elizondo sia l’incontro di due amanti, o forse le sevizie del dottor Farabeuf a una donna che gli giace accanto, ma queste sono le premesse per una narrazione concentrica che si espande come un fiume in piena. A essere trascinate nell’inondazione sono riflessioni sul senso della violenza nella storia, sulla morte che incombe alla fine di ogni avventura, sull’utopia di eternare l’istante dell’amore. Il punto focale da cui si irradiano le digressioni di Farabeuf è il corpo: un corpo seviziato, toccato, smembrato, anelato, ricomposto, amato, magnificato o lasciato marcire. D’altronde anatomia e fotografia si configurano come due aree tematiche fondamentali, due motivi conduttori sui quali si muove la prosa spiazzante del messicano.
Sulla copertina di Farabeuf è raffigurato un organo sessuale femminile, il rimando è all’erotismo che percorre tutta la narrazione, all’oggetto del desiderio del dottor Farabeuf: lo scrigno corporeo della sua amante. Ma questa enorme ferita potrebbe essere interpretata come la faglia che Elizondo vuole aprire con la sua scrittura, da cui si intravede l’inconscio di uomo moderno, la dialettica fra l’incontro dell’individuo con l’altro e le dinamiche della Storia che avvolgono ogni uomo. O ancora: la linea verticale così netta potrebbe significare l’istante che si dilata, il frammento di tempo che lo scrittore messicano ha cercato di afferrare e di moltiplicare, come se l’attimo fosse il flash che colpisce ogni paesaggio in ogni momento. Allo stesso modo la scrittura ibrida di Elizondo vuole comunicare il mistero di vivere, sfuggire alle categorizzazioni creando effetti illusori e imboccando false piste per confondere il lettore, in modo che la sua mente ne sia piacevolmente sorpresa. E in effetti arrivati alla fine della lettura si prova una confortante sensazione di spaesamento – come è difficile provare dopo aver seguito il filo di un romanzo più canonico – ma allo stesso tempo una sorta di riconoscimento: il brivido di aver incontrato temi universali, calligrafie dell’agire umano. Con questa ambivalenza ci lascia Elizondo, e noi non sappiamo ancora se siamo stati cullati dal sogno oppure vittime dell’incubo. Permane solo l’istante, e l’immagine di esso, la sua moltiplicazione: «La mia mente ha registrato solo un’immagine, ma un’immagine che non è un ricordo. Sono capace di immaginare me stessa trasformata in qualcosa che non sono, ma non in qualcosa che sono stata».
(Salvador Elizondo, Farabeuf o la cronaca di un istante, trad. di Giulia Zavagna, LiberAria, 2018, pp. 138, 16 euro)
LA CRITICA - VOTO 7/10
Una prosa magmatica che si moltiplica in forme variegate, la descrizione di un istante dilatato, fino a inglobare l’intera parabola dell’uomo. Una scrittura d’avanguardia che si rifà a Joyce e Claude Simon.