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Libri

Cosa leggeva Italo Calvino: i libri nei libri

Dai personaggi lettori alla “biblioteca ideale”

di Veronica Giuffré / 11 febbraio

Esiste un sentiero per esplorare la biblioteca di Italo Calvino che non passa per la materialità degli scaffali nelle case che ha abitato, ma attraversa le sue pagine scritte e – a dispetto della reticenza dell’autore a parlare di sé – rende possibile scoprire molto del lettore che è stato, ripercorrendo i suoi scritti di critica e d’invenzione letteraria.

Sin dai primi esperimenti di scrittura, l’opera narrativa di Calvino è costellata di personaggi intenti a fare ordine tra i propri libri, un’attività a cui lo stesso autore era solito dedicare molto tempo. Come Pietro, il protagonista del racconto I figli poltroni, di fronte alla sua modesta collezione: «Continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli malandati da una parte». Il lettore Calvino si riflette anche nei tratti del barone rampante, con i suoi scaffali sospesi che reggono i tomi dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert insieme a «manuali d’arti e mestieri»: «Per tenere i libri, Cosimo costruì a più riprese delle specie di biblioteche pensili, riparate alla meglio dalla pioggia e dai roditori, ma cambiava loro continuamente di posto, secondo gli studi e i gusti del momento, perché egli considerava i libri un po’ come degli uccelli e non voleva vederli fermi o ingabbiati, se no diceva che intristivano».

Con l’idea che i libri non possano essere intrappolati, lo scrittore inizia a concepire i suoi «scaffali ideali» su cui i volumi non hanno il tempo di impolverarsi perché vengono spostati di continuo, descrivendo le orbite di un percorso in costante evoluzione. In un saggio del 1954, I capitani di Conrad, si legge: «Su questo mio scaffale ideale, Conrad ha il suo posto accanto all’aereo Stevenson, che è pure quasi il suo opposto, come vita e come stile. Eppure più di una volta sono stato tentato di spostarlo su un altro ripiano – meno sottomano per me – quello dei romanzieri analitici, psicologici, dei James, dei Proust, dei ricuperatori indefessi d’ogni briciola di sensazioni trascorse; o perfino su quello degli esteti più o meno maledetti, alla Poe, gravidi di amori trasposti; quand’anche le sue oscure inquietudini d’un universo assurdo non lo assegnino allo scaffale – non ancora ben ordinato e selezionato – degli “scrittori della crisi”. Invece l’ho tenuto sempre là, a portata di mano, con Stendhal che gli assomiglia così poco, con Nievo che non ci ha niente a che vedere».

Calvino concepisce la sua biblioteca per selezione e non per accumulo, come Amerigo Ormea in La giornata d’uno scrutatore: «Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere e ad evitare il superfluo». E l’esigenza di liberarsi dell’eccesso diventa tanto più pressante nel momento di inscatolare i propri libri per trasferirsi in una nuova città, come accade nel 1967, quando lascia Torino per Parigi.

Dallo scaffale francese si allontanano i modelli letterari della gioventù, mentre cresce la sua passione per Leopardi e per Galileo e compaiono nuovi riferimenti contemporanei: Borges, Valéry, Queneau, Perec. Fino a che vive a Parigi, con i libri «sempre un po’ qua un po’ là», la biblioteca di Calvino è ancora una mappa interiore – «quasi identificassi me stesso con una biblioteca ideale», dichiara in un’intervista a Valerio Riva nel 1974. Allo stesso modo che in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Lo scrittore percorre con lo sguardo le costole dei volumi sugli scaffali, socchiude gli occhi, vede la letteratura universale rifrangersi indefinitamente, moltiplicarsi, dilatarsi». La letteratura gli appare come «un campo di vibrazioni, una galassia in espansione perpetua» e i suoi volumi sono raggruppati in un «insieme che non forma una biblioteca».

Calvino ha l’abitudine di stilare liste e fermarsi di tanto in tanto per fare dei bilanci. Lo racconta in un breve scritto nella raccolta Collezione di sabbia: «Ogni tanto mi metto a fare un elenco degli ultimi libri che ho letto e di quelli che mi riprometto di leggere (la mia vita funziona a base di elenchi: rendiconti di cose lasciate in sospeso, progetti che non vengono realizzati)». E l’interesse per la ricerca di sistemi di pensiero sempre nuovi lo spinge verso i territori più disparati della conoscenza, come dimostra il gran numero di atlanti e mappe, libri di storia, etnologia, astronomia, fisica, che affollano le sue stanze di lettura. Sono testi che rispondono alla sua curiosità, ma sono anche funzionali a fornirgli modelli e spunti sempre originali per la scrittura letteraria, critica e teorica. Non la biblioteca di un bibliofilo o di un collezionista, dunque, ma quella di uno studioso e soprattutto di un appassionato lettore.

Man mano che si arricchisce il suo discorso critico e prende corpo una definizione di poetica, comincia a farsi largo l’idea di biblioteca come sistema. Scrive in un saggio del 1967 contenuto nella raccolta Una pietra sopra: «La letteratura non è fatta solo di opere singole ma di biblioteche, sistemi in cui le varie epoche e tradizioni organizzano i testi “canonici” e quelli “apocrifi”. […] Una biblioteca può avere un catalogo chiuso oppure può tendere a diventare la biblioteca universale ma sempre espandendosi attorno a un nucleo di libri “canonici”». E aggiunge: «La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso i libri “apocrifi”, nel senso etimologico della parola, cioè i libri “nascosti”. La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare».

Il centro di gravità della sua biblioteca – di ogni biblioteca – sono i classici, che per Calvino sono letture «formative nel senso che danno una forma alle esperienze future», come scrive in un articolo per L’Espresso del 1981 (Italiani, vi esorto ai classici). Lungi dall’operare «distinzioni d’antichità, di stile, d’autorità», «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» e ciascun lettore è tenuto a costruire la propria biblioteca senza imposizioni né percorsi prestabiliti perché «è solo nelle letture disinteressate che può accadere d’imbatterti nel libro che diventa il “tuo” libro». Per dirla ancora con le parole dell’autore: «Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali».

È sempre il piacere per la scoperta che lo accompagna nel momento di radunare i suoi spiriti guida per varcare la soglia del nuovo millennio: nelle Lezioni americane una sorprendente immagine di levità orienta le sue scelte, dal volo di Perseo agli improvvisi di Samuel Beckett. Sorretto dai suoi numi, Calvino guarda al presente e si prepara per un futuro che è capace di prevedere – ma che non avrà il tempo di incontrare – come il più poetico e forse anche il più autobiografico dei suoi personaggi: con la stessa trasognata lucidità con cui Palomar guarda un’onda, conta i fili d’erba, cataloga formaggi francesi o fa visita allo zoo all’ultimo esemplare di gorilla albino, il suo sguardo si posa sul mondo come su uno straordinario libro da leggere, nello sforzo incessante di «raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono».