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Incontri ravvicinati col selvaggio (che è in noi)

Roland Schimmelpfennig, “In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo”

di Cristiana Saporito / 15 aprile

Lupus in fabula. L’espressione qui calza da guaina, restando splendidamente incagliati sul piano letterale. Perché anche in questo caso, come nel più inamidato corredo di fiabe per ragazzi, compare un lupo. Dopo di che, le somiglianze si eclissano e il romanzo del drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig, In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo (Fazi Editore, 2019, traduzione di Stefano Jorio) non rischia certo di finire affastellato tra bottini e rottami di letture per bambini. E se capitasse, consigliamo vivamente di rimuoverlo dal cumulo.

Questa infatti non è la storia di un lupo. Lui c’è, lui perdura. S’affaccia all’improvviso, gemmando dal freddo polacco, scavalla la frontiera e continua a transitare. Per tutto il tempo. Ma questa non è la sua storia. È molto altro, molto intorno. È la sostanza di ciò che attraversa. È quella degli occhi che l’incontrano; dello sciame scompigliato dei suoi svariati avvistamenti.

Nella linea di demarcazione tra due Stati e come recita il titolo, nel midollo dell’inverno europeo, una bestia si mette in marcia in direzione di Berlino. Di che si tratta? Ma sì, è un lupo. Oppure un cane, pieno di nebbia randagia.  Procede zigzagando. O magari in linea retta? L’evento preoccupa, sconvolge, elettrifica, innesca un vespaio di personaggi tutti pronti a impattare con l’avvento alieno. E tutti hanno una ferita addosso. Sono ammaccati, sanguinanti, malamente ricuciti.

Ecco qualche esempio: due adolescenti fuggiaschi, figli di naufraghi dell’alcol. Lei viene percossa da sua madre, con qualche breve segnale di annuncio, un piatto rotto, un equilibrio sbeccato e poi via con i pugni, che cadono come asteroidi, sul viso, quasi al centro dell’orbita, fino a lasciarla inginocchiata. Lui ha un padre dipendente dal bicchiere, che si accorge di suo figlio nel momento in cui svanisce, esattamente come accade ai giocattoli dei bimbi, che scompaiono un palmo sotto il tavolo e diventano vitali. Diventano vivi. Agnieszka ha vent’anni e si sostenta come può, fa le pulizie per uffici o per gente ricca. Ha un ragazzo polacco come lei, che per lavoro oscilla al di qua e a di là del confine.

Stanno insieme da più tempo di quanto ne ricordino e sono ormai un palazzo vecchio, uno di quelli che Tomasz demolisce per campare. Solo che lui su quelle macerie si è adagiato e le chiama “casa”. Lei no, lei cammina altrove e pesta tutti i cocci. È su di loro che vortica il peso maggiore, su di loro che atterra gran parte dell’interesse. Gli altri personaggi risultano comunque minori e sagomati con poca efficacia.

Intanto il lupo sbuca, come uno spettro della DDR, infilza la foschia, disarma le attese. C’è chi vorrebbe ucciderlo, solo per provarsi che esisteva, chi lo immortala per sfruttare l’accaduto, monetizzarci quanto basta, accedere alla fama. Ognuno estorce all’imprevisto la sua razione di riscossa.

Restando sempre solo. Questo non muta, non c’è apparizione che squarci la condanna di ciascuno. Sono tutte piccole bolle smagliate, in moto perenne dentro un campo corroso, scalcinato, incapace di creare legami, di farsi sistema. E questo non può che suonarci familiare, imparentato con i nostri eterni affanni, con la smania di piacere a chi non conosciamo. Di tracciare traiettorie eclatanti. Non importa quanto verosimili.

E chi ci scorre accanto, lo fa senza toccarci. Preoccupato com’è di irrigare finzioni. I suoi abbaglianti villaggi di vetrine. Il lupo è l’occasione possibile, l’occasione mancata, lambita e schivata da un volo di inetti. Una presenza animalesca, che ricorre spesso in tante opere recenti, dal potente romanzo di Jodi Picoult chiamato (neanche a farlo di proposito) La solitudine del lupo all’avventuroso e ancestrale L’ultimo lupo di Jiang Rong, per non parlare della slavina di saggi eto-filosofici incentrati sulla cifra indomita e selvatica di questo esemplare, tra cui Il lupo e il filosofo di Mark Rowlands (che ormai è quasi un classico) e Duemila giorni con i lupi di Jim e Jamie Dutcher.  Insperato ritorno all’autentico?

Qui di speranza non c’è odore e non c’è impronta. C’è un pulviscolo di esseri stremati. E il lupo passeggia sui loro detriti. Dentro una favola asciutta, minuscola come il suo titolo. Buia e smagrita, come una belva affamata.

 

 

(Roland Schimmelpfennig, In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo, traduzione di Stefano Jorio, Fazi Editore, 2019, pp. 232, € 18.00 | Recensione di Cristiana Saporito)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Schimmelpfennig esordisce con un romanzo-parabola sulla desolazione umana. Con lo sfondo di una Berlino provata ancora dalle sue lacerazioni, la comparsa di un lupo semina sconcerto e lascia tutti immutati nel loro smarrimento.