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Scott Fitzgerald e il topos del doppio
Vita vera e romanzo, autore e personaggio, ombra e lato pubblico
di Claudia Cautillo / 5 giugno
Sembra si debba al meccanico di Gertrude Stein — come rimprovero a un assistente che non era riuscito a riparare la sua Ford T — la celebre definizione di Génération Perdue che la scrittrice statunitense (1874-1946), tra le personalità di maggior spicco del modernismo, fece sua per definire il gruppo di scrittori che da giovani avevano partecipato alla Grande Guerra, restando per il resto della loro vita profondamente segnati da quella esperienza. Tra questi, un posto speciale nella critica letteraria italiana spetta a F.S. Fitzgerald (Saint Paul, 1896 – Los Angeles, 1940), come ci racconta Antonio Merola in questo libricino snello di sole 96 pagine, F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), che si offre come utile promemoria del tortuoso riconoscimento editoriale di un autore straniero tra i più controversi e farraginosi della prima metà del XX secolo.
Infatti, tra i protagonisti della Lost Generation — dei quali ricordiamo Hemingway, Miller, Steinbeck, Eliot, Dos Passos, Pound, Remarque, ecc. — Fitzgerald è quello le cui fortune critiche sono state, nel nostro Paese, maggiormente avverse e tormentate, trovando quasi unanime consenso di vedute solo negli ultimi anni. Ripercorrendone la storia dalle prime traduzioni di Fernanda Pivano di Tenera è la notte (1949) e di Il grande Gatsby (1950), che vennero sostanzialmente ignorate dal pubblico, Merola ne analizza la lenta riscoperta nel secondo dopoguerra e, via via fino a oggi, il progressivo e crescente interesse focalizzatosi intorno alla sua opera.
Forse l’italica incomprensione del suo talento può farsi risalire già al 1924 quando, ubriaco, Fitzgerald prese a pugni un tassista romano, dando così probabilmente il via al mito della sovrapposizione romantica vita reale-romanzo, che tanto lo danneggerà. Infatti, inizialmente considerato da Elio Vittorini niente di più e niente di meno che uno scrittore frivolo dell’Età del Jazz, al punto di includerlo nella celeberrima antologia Americana (1941) nella sezione Eccentrici, una parentesi, Fitzgerald viene in buona sostanza equivocato, ridotto a semplice maschera del proprio tempo, epitome di quei ruggenti anni venti da rotocalco fatti di atmosfere notturne e depravate tutte alcol, droghe, pailettes luccicanti e malfamati locali speakeasy.
Persino la traduzione di Montale del racconto The Rich Boy (Il giovin signorino), non ci restituisce appieno il grande autore americano nella sua complessità, né l’ammirato contributo critico di Cesare Pavese a Il grande Gatsby — nel quale la segreta speranza del protagonista che il passato possa rivivere come un tempo non è dissimile da quella che spinge al ritorno gli stessi personaggi pavesiani — fu sufficiente, nel ’49, a riscattarlo dalla restrittiva quanto ingiusta nomea di dandy raffinato, sregolato e superficiale, destinata ad accompagnarlo come un’ombra per i decenni a venire.
Il merito della più recente critica italiana, ci dice Merola, consiste nel tentativo di sollevare Fitzgerald dalla reputazione di letterato leggero, dissociandolo dalla leggenda biografica dell’uomo dissoluto e bon vivant che tanto gli ha nuociuto, soprattutto nell’Italia gravata dal fascismo prima e dal dopoguerra poi, che ha scelto di preferirgli intellettuali meno intimisti e maggiormente calati nel panorama sociale e politico contemporaneo quali ad esempio Hemingway, Caldwell e Faulkner.
Ma strumento privilegiato per comprendere appieno la substantia del grande scrittore statunitense è soprattutto il topos del doppio: quel doppio oscuro della pazzia di Zelda, l’amata moglie per le cui costose cure psichiatriche scriverà molti racconti commerciali destinati alle riviste popolari di grande consumo; il suo proprio doppelgånger diviso tra alcolismo e facciata mondana, che lo costringe a muoversi come il fantasma di se stesso; lo sdoppiamento del cercare Zelda in un mondo altro, quello della scrittura – ciascun personaggio femminile della produzione fitzgeraldiana è intessuto di lei – lontano tanto dalla clinica quanto, ancor di più, dalla realtà; soprattutto il duplice sentire della coppia biografica Francis Scott-Zelda, vera chiave di volta per uno studio interpretativo e puntuale dell’intero corpus.
È qui, di fatto, il cuore di F. Scott Fitzgerald e l’Italia: nell’idea di approcciarsi ad un’analisi dell’intera sua produzione allargando l’orizzonte della riflessione fino ad includere il binomio reale marito-moglie, ma in una prospettiva rovesciata rispetto allo sguardo della passata critica, che vedeva in lui l’uomo dissoluto indifferente ai movimenti della Storia. Lontano dal leggere il suo lavoro come specchio di un’egoistica chiusura personale, Merola ci propone, al contrario, un Fitzgerald in cui il dato biografico — in special modo il legame amoroso con Zelda — non è mero escamotage a pretesto di trame e personaggi, bensì motore primo da cui nascono senso e significato della sua opera.