Libri
Dalla parte sbagliata
Rimanelli e le memorie di una guerra civile
di Ulderico Iorillo / 19 settembre
«Il prete raccontò come Mussolini era stato ucciso e come era finita la guerra. Seguitò: Sono venuto a portarvi la verità, e dirvi che è inutile spargere altro sangue e fare altri morti. Le madri aspettano i figli».
Nell’immediato dopoguerra, tra il 1947 e il ’48, un giovane ventiduenne proveniente da Casacalenda, un piccolo paese di un Molise poverissimo e maltrattato dalla guerra, conclude il suo primo romanzo. La storia che decide di raccontare, così come vedrà la luce diversi anni dopo, è quella di un ragazzo che sale su un camion tedesco a 17 anni per fuggire dal mondo ristretto e arretrato del suo paese e si trova a vivere la Resistenza “dalla parte sbagliata”, prima con i tedeschi e poi tra i repubblichini di Salò. Qui, Marco Laudato, l’alter ego dello scrittore Giose Rimanelli, milita nella Legione Tagliamento, Battaglione M, cioè quelli che avevano l’aquila sul berretto, verso i quali i partigiani miravano urlando: «Tirate al piccione!».
«Quando giungemmo alla quinta baita non avevo più paura, e pensavo che i partigiani sono degli uomini come noi. Adesso avevo coscienza di essere un normale prigioniero di guerra che segue il suo destino».
La prima stesura del romanzo risale al 1945, ma è a seguito di alcune riscritture che il manoscritto comincia a circolare, cioè quando Rimanelli si trasferisce a Roma e frequenta il suo corregionale Francesco Jovine (per il quale tra l’altro batte sotto dettatura Le terre del sacramento). Jovine legge il manoscritto di Rimanelli, gli consiglia di sfoltirlo e di concentrarsi solo sulla parte relativa alla guerra, lasciando fuori gli anni della giovinezza. Intanto, grazie all’intermediazione di Jovine, altri intellettuali come Natalino Sapegno, Carlo Levi e Carlo Muscetta si trovano tra le mani il romanzo.
È il 1950 e Cesare Pavese, che si trova a Roma per un viaggio di lavoro, vuole incontrare l’autore di questo libro di cui ha sentito parlare. Sul loro incontro, come su altre vicende di quegli anni, il ricordo di Rimanelli è un po’ fantasioso (Molise Molise, 1977): infatti, dice di aver incontrato Pavese «per caso o destino al Bar-Gelateria Giolitti di via degli Uffici del Vicario». La gelateria, però, si trova sotto gli allora uffici di Einaudi nella capitale, dove Muscetta lavora come consulente per la sezione romana, e ha da quasi un anno il manoscritto in un cassetto della scrivania.
Nel maggio del 1950 Pavese e Calvino riferiscono nella riunione editoriale su Tiro al piccione e fanno notare i limiti del libro «sia letterari che come documento politicamente educativo», ma ne sottolineano il vigore descrittivo.
«Verso sera il mio compagno di sinistra si sparò. Gli cadde il parabellum dalle mani e la scarica gli tagliò mezza testa. Tutti si guardarono in faccia, sbiancati dalla paura».
Pavese scrive una lettera a Muscetta in cui si dice interessato alla pubblicazione per Einaudi e afferma di non sapere quale sia la collana più adatta a ospitarlo. Avverte, inoltre, che bisognerà attendere il parere di Calvino e Vittorini. Pavese scrive: «con tanta materia sanguinolenta, orrida e oscena, pecca per sentimentalismo. Del resto essere sentimentali vuol dire esser deboli (letterariamente): cedere alle sensazioni e agli umori, e quindi al gusto per il truce, il violento, il colorito, il sensuale. Aggiungi che sul fiammeggiare aggettivale e verbale della sua prosa descrittiva, Giose ha sparso il pepe del turpiloquio neorealista. Insomma, potare, sfrondare, neutralizzare, verniciare» (Lettere 1945-50, 1966). Anche Calvino, nella lettera di accompagnamento del manoscritto diretta a Vittorini, considera il libro interessante ma acerbo e chiude con una nota d’indecisione (I verbali del mercoledì, 2011).
Da questo momento comincia un lungo dibattito in Einaudi sulla collocazione e l’effettiva realizzazione del libro. «L’opposizione più tenace», racconta Rimanelli a Simonetta Fiori (Repubblica, 1992), «veniva dal gruppo torinese di radice gobettiana: Paolo Serini, Felice Balbo, Natalia Ginzburg. Il romanzo era sì antifascista – in questa chiave sarebbe stato letto da Togliatti – ma era scritto dalla “parte sbagliata”. Pubblicandolo, implicitamente si sarebbe riconosciuta dignità di avversari ai repubblichini di Salò. D’altra parte, ci sono voluti più di quarant’anni perché in Italia anche la cultura di sinistra accettasse la nozione di guerra civile». Questa la lettura di Rimanelli sui giudizi einaudiani e, se pure fotografa una realtà culturale dell’epoca, risulta un po’ enfatica. D’altronde già Calvino, in una lettera indirizzata a Muscetta suggerisce di parlare con Rimanelli il meno possibile dei dubbi sulla collana perché: «ha un po’ il difetto di amplificare le cose che lo riguardano».
Dai verbali successivi delle riunioni editoriali in Einaudi si nota una totale confusione sull’effettiva fattibilità della pubblicazione. Calvino scrive a Vittorini: «dicci la tua: che all’attuale stato delle cose, è in questo dilemma: o fare il Rimanelli nei Coralli o rifiutarlo del tutto». Infine si decide per i Coralli e del libro se ne fa anche una bozza di stampa. Ma nell’agosto del ‘50 muore Pavese, l’unico ad aver dato sin da principio parere positivo alla pubblicazione, così il libro viene nuovamente bloccato. A questo punto, dopo oltre un anno di attesa, l’autore molisano è sfiduciato e propone la rescissione del contratto all’editore, che prontamente accetta.
Ci vogliono ancora due anni perché il libro possa essere finalmente pubblicato grazie a Vittorini. Durante la sua collaborazione con la Mondadori, infatti, l’autore siciliano si trova a riconsiderare anche testi già suggeriti per Einaudi. Nella scheda di lettura del manoscritto afferma di aver ritenuto non pubblicabile il libro nei Gettoni perché privo di “sperimentalismo”, ma che avrebbe potuto avere un buon successo di pubblico. Tiro al piccione vede così la luce nel 1953 per Mondadori nella collana La Medusa degli italiani.
Il film e la nuova edizione
Il tema trattato da Rimanelli continua a essere complicato anche nell’Italia degli anni ‘60, quando Giuliano Montaldo, appena ventinovenne, decide di portare sullo schermo le vicende di Marco Laudato. È il 1961 e la critica è molto dura con il film perché vi ravvede una cifra revisionista nei confronti del fascismo. La carriera di Montaldo viene messa in crisi, come dirà molti anni più tardi il regista. «Mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista». (Torino città del cinema, 2001).
Nel 1991, in tempi decisamente più miti in materia di antifascismo, Einaudi decide di acquistare i diritti del libro e pubblicare nei Tascabili, per la prima volta, quel Tiro al piccione che tanto aveva interessato e perturbato gli intellettuali del dopoguerra. Il romanzo, in questa edizione, ha una corposa prefazione a cura di Sebastiano Martelli che ne descrive in parte la storia editoriale e introduce la vita e le opere dell’autore molisano. In America si organizzano diverse conferenze e Furio Colombo ospita l’autore all’Istituto Italiano di Cultura di New York. Nell’intervista a Rimanelli in occasione dell’edizione Einaudi, Simonetta Fiori chiosa: «esaurita la stagione dei sentimenti, è ora il momento della ricerca. Senza mascherature ideologiche».
L’autore e la letteratura d’emigrazione
La carriera letteraria di Rimanelli non si conclude con il suo primo romanzo. Durante gli anni romani lavora per il giornale fascisteggiante Lo specchio dove, a detta sua, si scaglia contro «i baroni della società letteraria – i Baldini, i Bontempelli – per di più sulle pagine di un giornale ambiguo», quindi si sente costretto ad andare via dall’Italia. «Fu un suicidio involontario. Tutte le porte di quel mondo mi vennero chiuse; non mi rimase che andarmene».
Giose, che ha una madre canadese e un padre a lungo emigrato prima di ritornare in Molise, decide di partire per il Canada, dove diventa caporedattore del giornale Il cittadino canadese di Montreal. A seguito del suo primo viaggio scrive il libro Biglietto di terza, nel quale descrive i desolati paesaggi di un Canada che sembra fermo all’Ottocento. Poi si sposta negli Stati Uniti, dove insegna italiano e letteratura comparata in diverse università: da Yale, alla Columbia e, infine, per oltre trent’anni è professore all’Università di Albany nello stato di New York. In tutti questi anni Rimanelli si confronta con opere di diverso genere: dalla poesia, al teatro, alle sceneggiature televisive, e comincia a scrivere in lingua inglese. Questo rende difficile la collocazione della sua produzione nella letteratura italiana, inglese o ancora in quella cosiddetta della diaspora. Il linguaggio in tutte le sue opere ha tratti sperimentali e proprio questo sperimentalismo è evidente in quella “lingua dell’esilio” usata nel suo primo romanzo in inglese Benedetta in Guysterland con il quale vince l’American Book Award.
Memorie di una guerra civile
Nonostante la lunga e prolifica attività di scrittore, la storia della Resistenza così come Rimanelli l’ha raccontata, sia per portata letteraria che biografica, ha rappresentato uno spartiacque nella vita di dell’autore. D’altronde si tratta di un trauma così grande su cui è difficile riflettere in modo coerente per tutta la generazione che ha preso parte a quella stagione di guerra. Scrive Rimanelli: «Io, personalmente, ho fatto suicidio. Sono rinato altrove. E ciò che di me si scrive è solo un post mortem. Mi pare la storia di un altro» (Discorso con l’altro, 2000).
Un lungo saggio pubblicato da Treccani in L’Italia e le sue Regioni, intitolato Memorie dalla guerra civile affronta ampiamente il tema di come è stato elaborato il ricordo delle stragi da parte dei repubblichini e dei partigiani. Il romanzo di Rimanelli e le successive testimonianze dello scrittore sono oggetto di riflessioni sui repubblichini, su quanti affrontarono la fase della Resistenza dal versante fascista. Quello che Contini sottolinea è che sembra, dalle memorie, che «il trauma sia stato così forte da annichilire l’io dei narratori. Tutti gli altri italiani sono riusciti a distaccarsi progressivamente dal fascismo, tanto da salutarne la fine come una liberazione. I militi di Salò, rimasti soli, subiscono la dissoluzione dell’ultimo fascismo come una disintegrazione personale, dalla quale riemergeranno come da una morte consumata».