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«Non sono uno scrittore di pura lana vergine»
Una serata con Antonio Moresco e il suo “Canto di D’Arco”
di Riccardo Romagnoli / 12 novembre
Nella sede milanese della casa editrice SEM Antonio Moresco ha presentato il suo nuovo romanzo Canto di D’Arco. E ha iniziato dicendo: «Non sono uno scrittore di pura lana vergine. Non bisogna essere schizzinosi: nella letteratura non si butta via niente». Perché Moresco, per la prima volta, ha scritto un thriller. La fascetta editoriale lo definisce «thriller metafisico».
Canto di D’Arco incorpora nella prima parte, ora intitolata “Il male”, il romanzo L’addio (Giunti, 2016) e poi si espande nella seconda parte, “L’amore”, e nella terza, “Le città di confine”. Il nome “D’Arco” sembra avvicinare il protagonista a Giovanna D’Arco, oppure rimandare all’inglese dark.
È Moresco a fornire una risposta diretta: D’Arco è il nome di un palazzo di Mantova, sua città natale, in cui viveva una vecchia marchesa folle e da bambino l’autore entrava con la complicità di un’amica della madre. Eppure quanto più sensato sarebbe stato collegare D’Arco con il buio (dark), poiché D’Arco è un investigatore dagli occhi bianchi che vive nelle città dei morti, o con Giovanna D’Arco e le sue profezie di rinascita e di riscatto sia morale che religioso, perché questi sono i compiti che D’Arco si pone: comprendere chi profana i bambini nella città dei vivi, e porre rimedio a tanto male? Un modo per spiazzare.
Il termine “canto” si rifà invece ai Canti del caos (Mondadori, 2009) e ai diversi “io” che in quel contesto prendevano direttamente la parola creando tanti assolo. Dato che nel nuovo romanzo tutta la narrazione è in prima persona, ma a parlare, pensare e agire è D’Arco, il titolo è Canto di D’Arco.
D’Arco è una specie di cavaliere errante che attraversa città dei morti e dei vivi e dei confini per completare la sua quête.
Qual è la sua quête? Scoprire chi uccide i bambini e, in un significato molto più ampio, perché c’è il male. L’opera di Moresco prende di petto la questione e non retrocede davanti al quesito radicale ed estremo: perché si soffre?
Sembra impossibile vivere: «I vivi sono morti perché vivi e i morti sono vivi perché morti». Allora tutto è morte. Però Moresco non si ferma qui. Non rinuncia. Non abbandona la presa. Il male deve essere combattuto. D’Arco, l’investigatore morto e dagli occhi bianchi, fa vedere ciò che gli uomini (vivi e con gli occhi) non vedono. Lo scontro è gigantesco.
Moresco accetta la sfida di unire lirismo ed epica, seguendo la lezione dei grandi autori del passato, e inserisce, come un altro dei temi dominanti del romanzo, l’amore e la figura femminile di Quella: «E allora, in quel nido segreto, con i nostri due corpi soli che si stavano continuando a cercare e a riconoscere nell’oscurità più profonda del mondo, ci siamo amati per la prima volta o abbiamo ricominciato per la prima volta ad amarci anche nella città dei vivi».
D’Arco ha incontrato Quella in un cassonetto dei rifiuti. L’ha salvata. Hanno iniziato un sodalizio che li vede uniti e poi separati e poi uniti. Il romanzo è un vorticoso movimento di persone e di cose, e proprio in “Le città di confine”, la terza parte del romanzo, si capisce meglio come il fluire nello spazio e nel tempo costituisca la salvezza e la condanna degli uomini. I confini cambiano di continuo e D’Arco scopre di essere lui confine, e che spostandosi sposta confini.
Il movimento è incessante fino alla fine, quando si dice, nelle ultimissime righe: «E allora mi metto di nuovo a camminare nel buio, con le mie scarpe da ginnastica scalcagnate, con il mio liso giubbotto di cuoio, con le mani affondate nelle tasche fin quasi a sfondarle, con il mio corpo pieno di ferite e di cicatrici, con il mio cuore che pulsa forte attorno alla sua dura perla di buio, seguendo quella strada o quella costellazione di luce che si è accesa solo per me al di sopra di questo abisso, che non so da dove viene, verso dove mi sta guidando». Il caso è chiuso, ispettore D’Arco, ma le strade da percorrere ci sono ancora e sono infinite.
Il romanzo di Moresco unisce l’alto e il basso, le scene d’azione tipiche del genere thriller e la riflessione sull’uomo e sul suo destino, tipiche dei romanzi-saggio. Ci sono dentro Salgari, Deaver, Connolly, Agatha Christie, Evangelisti, il feuilleton ottocentesco, ma pure Cervantes, Dante, Leopardi, Dostoevskij.
I grandi scrittori non hanno avuto paura di inserire le loro storie ad alta verticalità entro un genere. Gli esempi sono molteplici e per citarne solo alcuni, e i più noti, potremmo fare i nomi di Dickens, Hugo, Balzac.
Un vizio, e un difetto, di tanta narrativa italiana contemporanea è di ritagliarsi uno spazio protetto di cosiddetta pura letterarietà, un piccolo pascolo sereno ed elegiaco in cui coltivare belle parole.
No. Letteratura non è questo. O almeno non lo è la letteratura moreschiana, che è piuttosto un’ascia, che spacca e che entra di prepotenza nel genere, ne assume la potenza immaginifica e la meravigliosa macchina narrativa.
La voce di Moresco ribadisce cosa significa scrivere e cosa deve e vuole essere la letteratura. Il postmodernismo ha ridotto ogni forma di sapere (compresa la letteratura) a gioco di citazioni, a debole copia di copia di copia della realtà, a semplice discorso autoreferenziale. Al contrario Canto di D’Arco, e tutti i romanzi di Moresco, spingono verso la conoscenza e l’esperienza.
La letteratura è esordio, quindi. Non a caso il libro Gli esordi apre la famosa trilogia (Gli esordi, Canti del Caos, Gli Increati, ripubblicati negli oscar Mondadori col titolo Giochi dell’eternità). La parola “esordio” significa un inizio e un ingresso nel mondo per scardinarlo e conoscerlo, e perché si possa vedere ciò che ci sta intorno ma che non vediamo, e per esperirlo con sensi ravvivati. La letteratura è politica, è resistenza, è lotta.
In Il Grido (Sem, 2018) Moresco aveva spronato l’uomo a vedere l’abisso verso il quale stava andando. Come un nuovo Giovanni Battista, «che grida nel deserto», metteva in guardia dall’estinzione a cui l’uomo giungerà se continua nel suo sfruttamento cieco della natura.
Moresco è uno dei sostenitori (e fondatori) di una repubblica nomade che, attraverso il cammino a piedi, in Italia e in Europa, recupera il valore della non-stanzialità. Il dinamismo che caratterizza D’Arco in questo romanzo è in qualche modo il fluire degli uomini che creano e spostano confini e si perdono e si ritrovano in un nuovo contatto con l’ambiente, non più sfruttato brutalmente, ma attraversato con delicatezza.
Leggere Canto di D’Arco produce quel senso di meraviglia di cui parlava Aristotele per spiegare la nascita della filosofia. Meraviglia in quanto consapevolezza della propria ignoranza e inizio di una ricerca.
La meraviglia che si prova a leggere Canto di D’Arco ha origine dal magma interno da cui il romanzo nasce. Direbbe Freud: «L’uomo non è padrone a casa propria». Ci sono meccanismi inconsci che, una volta governati e formati, si trasformano in opere d’arte.
Meraviglia, allora, perché il lettore accede a luoghi oscuri della psiche, in generale, e della sua psiche, in particolare.