Musica
La madre di tutte le occasioni sprecate
Father of All... dei Green Day: come NON reinventarsi
di Emanuele Pon / 12 febbraio
Un pennarello per bambini disegna il logo vecchio stile della band, e il titolo dell’album si staglia sul braccio che 16 anni fa esibiva il cuore a forma di bomba a mano di American Idiot. Non è tutto: il titolo dell’album è in parte cancellato dal disegno stilizzato di un unicorno strafatto che vomita un arcobaleno.
Uno scherzo di pessimo gusto? Uno scarabocchio blasfemo del fratello minore sul vecchio poster di qualche millennial che ha venerato, a suo tempo, il Jesus of Suburbia?
No: è Father of All…, ultimo disco in studio dei Green Day, ed è tutto vero. La copertina, decisamente oscena evoca il desiderio, da parte della band, di tornare all’attitudine ed al suono più scanzonati delle origini, quello di Dookie (1994): spostiamo il fuoco dall’heart like a hand-granade di American Idiot, suoniamo il braccio e non il cuore.
Ora, questa istanza da parte dei Green Day sarebbe anche comprensibile, persino condivisibile, se non fosse per un dettaglio: è un film già visto.
Corre l’anno 2012: Billie Joe Armstrong, sul palco dell’iHeart Radio Festival, evoca il fantasma di Paul Simonon che spacca tutto sulla copertina di London Calling. Il giorno dopo, è in rehab. A stretto giro escono Uno, Dos e Tre: la trilogia è un ideale dito medio innalzato verso le sonorità – e la fama – da stadio del predecessore, 21st Century Breakdown (2009).
La band raggiunge quello che forse era il suo obiettivo recondito: un clamoroso insuccesso.
Nel 2016 esce Revolution Radio. Da Somewhere Now a Forever Now, Billie Joe disegna un cerchio perfetto, con un messaggio chiaro: stiamo diventando vecchi, ne siamo consapevoli, chiudiamo ora e saremo giovani per sempre.
E allora perché ricominciare da capo con Father of All… (che poi sarebbe Father of all motherfuckers)?
Il più grande errore dei Green Day, da otto anni a questa parte, è quello di ostinarsi a pensare di avere ancora qualcosa da dire: un errore che tocca il suo apice proprio con quest’album.
Father of all…ricorda, nell’atteggiamento di fondo, quegli uomini d’altri tempi che si mettono a smanettare con lo smartphone. Il desiderio tenace, quasi ossessivo, di aggiornarsi, adattarsi ai nuovi linguaggi musicali, già di per sé foriero di rischi, diventa a questo punto ridicolo.
In Father of all…ci sono troppe idee, tutte insieme, fuori tempo massimo: la volontà di rinnovare il proprio sound è costretta a convivere con il recupero delle radici, del rock ‘n’ roll classico. Idee strozzate.
Il risultato è il disco più corto della storia dei Green Day (26 minuti totali), allo stesso tempo compatto ed eterogeneo.
Compatto nella durata, che è senz’altro un vantaggio – difficilmente, con un minutaggio maggiore, Father of All… sarebbe risultato anche solo credibile –; compatto nel sound di fondo, che – complice la produzione di Butch Walker – unisce una ritmica vicina alla drum machine a voci effettate e chitarre sintetizzate; eterogeneo nel recupero, da parte del songwriting di Billie Joe e compagni, di una serie di stili musicali appartenenti al passato.
Questo atteggiamento da operazione-nostalgia è sempre stato lì, dietro le quinte. Il problema è che, anche sotto questo aspetto, la band è in piena fase involutiva: una volta, i pezzi che oggi compongono Father of All… sarebbero stati buoni per un disco dei Foxboro Hot Tubs (side-project del trio), o per un concerto dei Longshot (cover-band di Billie Joe). In altre parole, per divertirsi, niente di più. Con la pubblicazione della trilogia (in particolare di Dos!), questa tendenza al “divertiamoci, facciamo casino e basta” era già passata all’interno della musica ufficiale dei Green Day, con risultati disastrosi.
Father of all…è un ulteriore passo avanti (indietro) in questo senso.
Reverend Strychnine Twitch (pseudonimo del frontman nei Foxboro Hot Turbs) si è nuovamente impossessato di Billie Joe, ma è invecchiato malissimo: le sue canzoni hanno perso, rispetto al passato, quella carica di autenticità, forse dovuta – bisogna ammetterlo – all’inebriante mix di pills and alcohol di cui il cantante faceva uso. Il Reverendo Twitch ora è sobrio, è diventato un responsabile padre di famiglia che deve tornare a casa presto e quindi chiudere in fretta le sue canzoni: quasi come se avesse paura di essere colto con le mani nel sacco.
Esattamente così suona Father of All…: musica d’intrattenimento per un ottimo e divertente sottofondo, come certe serie Netflix, le cui puntate sfumano l’una nell’altra senza soluzione di continuità. Una festa a tema, un ballo scolastico: nulla di nuovo.
Il sintetico, finto drumming di Tré Cool, a partire dalla title-track in apertura, ci trascina in questo sound di plastica, che copre con una patina di elettronica anni ‘80 ogni altra citazione.
Da lì, è un rincorrersi di strizzate d’occhio a vari generi: dal glam di “Oh Yeah!” (dove i Green Day arrivano a campionare una canzone non loro, il pezzo di Joan Jett che si sente nel ritornello) al garage di “Fire, ready, aim”, dal soul in stile Motown di “Meet me on the roof “(che, nonostante la durata esigua, riesce addirittura ad annoiare!) ai battimani da stadio di “Graffitia”, pezzo di chiusura che sembra scimmiottare i ritornelli epici e aggreganti di Springsteen.
Le note – relativamente – positive sono riservate al lato B: “Sugar Youth” è il pezzo più Green Day del disco, con un onesto ritornello pop-punk che, a questo punto, è una boccata d’aria; ma, soprattutto, è interessante “Junkies on a High”, dove il ritmo rallenta per trasformare la voce e la chitarra di Billie Joe in qualcosa di autenticamente nuovo.
I testi non riescono, da soli, a salvare la situazione: anche quando trova dei buoni spunti – come nei tre primi singoli, che si confrontano con la paranoia collettiva, con l’utilizzo di armi vecchie e nuove (dai fucili ai post infuocati degli haters) e con la fama al tempo dei social network – la scrittura di Billie Joe è soffocata dalla fretta e dalla frenesia di questo divertimento artificioso che è Father of all….
La sensazione che domina è quella di trovarsi di fronte ad un’occasione sprecata, perché in mano alle persone sbagliate.
Ci hanno provato, i Green Day, a reinventarsi per l’ennesima volta (sarebbe stata almeno la terza nella loro carriera trentennale), ma non ci sono riusciti: il coraggio ed il progetto vanno premiati, ma non basta.
Sarebbe forse stato meglio se la pratica non fosse mai arrivata, e ci si fosse fermati alla teoria: come quando, di recente, Billie Joe, che ci ha visto lungo, ha dato pubblicamente il suo endorsement ad un’altra Billie, la Eilish, lei sì davvero figlia di questo tempo, di cui i Green Day non fanno più parte.
Sarebbe forse meglio se i Green Day, per il bene stesso dei Green Day e di ciò che rappresentano, semplicemente la smettessero: solo così sarebbero giovani per sempre.
LA CRITICA - VOTO 5/10
Con Father of All…i Green Day provano a dare l’ennesimo colpo di coda alla loro lunga carriera, questa volta senza riuscirci. È ora di dare davvero spazio ai giovani: non basta parlare bene di Billie Eilish, bisogna farla suonare.