Libri
L’inganno delle sciamane
Su “Namamiko” di Fumiko Enchi
di Daria De Pascale / 24 marzo
Per un lettore occidentale, leggere Namamiko (Safarà, 2019) di Fumiko Enchi significa affacciarsi verso un mondo altro, lontanissimo nel tempo e nello spazio: la corte imperiale giapponese del periodo Heian, con le sue innumerevoli norme e la sua estrema raffinatezza – quella descritta in opere come La storia di Genji di Murasaki Shikibu e Le note del guanciale di Sei Shōnagon.
Con Namamiko, pubblicato per la prima volta nel 1965, ultimo tassello della sua cosiddetta trilogia informale legata proprio a La storia di Genji, di cui fanno parte anche Onnazaka (Safarà, 2017) e Maschere di donna (Marsilio, 2001), Enchi racconta di personaggi realmente esistiti: l’imperatore Ichijō, la splendida Consorte Imperiale Teishi, «versata nella poesia, nella calligrafia, nel koto e nel biwa […] talmente dotata che anche fra i gentiluomini più talentuosi non c’era nessuno che le fosse superiore» e l’immenso mondo della corte che li circonda, e più di tutto gli avvicendamenti e trame di potere tra le famiglie più in vista, che finiscono per segnare la parabola discendente proprio della consorte imperiale e della sua famiglia.
Lo fa ricostruendo un testo fittizio, il Namamiko Monogatari, che la voce narrante dichiara di aver visto da bambina nella biblioteca del padre, importante critico letterario dell’epoca – come in effetti lo era il padre di Enchi; e confrontandolo con testi reali, come l’Eiga monogatari, che racconta gli stessi anni da una prospettiva opposta, scritto per esaltare la gloria di Michinaga, zio della Consorte Imperiale e membro influente della corte.
Attraverso questo intreccio di racconti ufficiali e per così dire apocrifi, Enchi costruisce una narrazione su più livelli, con un obiettivo evidente: riscrivere una parte della tradizione storica e letteraria giapponese dal punto di vista dei perdenti. Non solo la famiglia di Teishi, che nel corso del racconto perde la sua influenza e viene praticamente distrutta da quella di Michinaga, ma soprattutto le donne, il vero nucleo di interesse di Namamiko.
Le donne delle famiglie più influenti, usate come merce di scambio, colte e raffinate solo perché necessario a irretire imperatori e altri uomini di potere dell’ambiente rarefatto della corte, in cui la comunicazione passa per il tramite della poesia e della letteratura. Ma anche le donne più svantaggiate, ingannate e sfruttate anche a loro insaputa per compiere piani che rinforzino posizioni di potere e indeboliscano gli avversari.
Proprio una donna di questo genere è il centro della narrazione di Enchi: Kureha, la figlia di una medium – una miko, una sciamana: il titolo, tradotto con “false sciamane”, si riferisce proprio a questo – che viene introdotta a corte da Michinaga e diviene la dama di compagnia preferita della Consorte imperiale Teishi.
Monaci, riti e preghiere serpeggiano in tutto il romanzo, in un mondo raffinatissimo ma anche intriso di magia e superstizione: un paesaggio in cui le miko, «pallide come spettri, gli occhi che si contorcevano, i capelli scarmigliati», hanno il potere, almeno per il tempo della possessione da parte di divinità e di anime di uomini, di dettare le sorti dei potenti e, cosa forse più importante, di esprimere appieno la propria energia vitale.
È la stessa Enchi a spiegarlo, scivolando con la sua voce autorevole nel racconto storico: le sciamane godevano di una maggiore libertà emotiva, perché «la possessione in sé della medium da parte della divinità segue un percorso che da una tensione estrema fra mente e corpo attraverso la trance arriva alla saturazione, e nel corso di questo percorso anche il desiderio sessuale viene naturalmente soddisfatto».
Non per questo le scelte di vita delle miko sono esenti dal giogo maschile: «era uso che per la durata del loro servizio alla divinità rimanessero vergini». E nel riportare presunti precetti religiosi li reinterpreta, seppure con sottigliezza, alla luce di quel controllo: «Probabilmente è logico vedere l’esigenza della purezza del corpo nel rito come frutto della presunta preferenza della divinità per le donne che fossero nella condizione di accogliere le richieste di un uomo, piuttosto che dell’ostilità verso l’impurità femminile».
La storia di Kureha dimostra come lo spazio lasciato alle miko non sia infinito, e soprattutto privo di pericoli: prima quasi invaghita di Teishi, di cui diviene la dama prediletta, poi innamorata di un capitano delle guardie che però la rifiuterà dopo aver incontrato la splendida Consorte Imperiale, per desiderio di vendetta finisce per prestarsi a fingere una possessione che scatena le maldicenze della corte e segna la fine di Teishi oltre che la propria. Il suo orgoglio, la possibilità di una forma di espressione e il potere che ne deriva diventa infine la causa della sua distruzione.
Come per le Sibille dell’antichità, come per le streghe di ogni luogo e tempo, il contatto con il soprannaturale pone le miko a un livello superiore a quello degli uomini e le affranca dalle loro regole. Attraverso una comunicazione privilegiata con gli dei e con il regno delle anime e dei morti, le sciamane creano uno spazio privato precluso a tutte le altre donne: non solo alle donne comuni o alle dame della corte, ma persino alle Imperatrici, come la giovane Teishi, vera e propria personificazione dell’ideale femminile dell’epoca.
Ma, sembra dire Enchi, neanche gli dei possono salvarle dalla sottomissione. Il loro contatto inaccessibile con la divinità è accettabile solo se si piega ai fini dei potenti: se così non è, se è puro e la voce degli spiriti segue una direzione diversa da quella prestabilita, colei che se ne fa portavoce viene accusata di aver mentito, viene persino incarcerata per questo. “Sono innumerevoli i crimini possibili in questo mondo, ma non renderti responsabile di provocare il rancore di una donna: se succede lei non lo mostrerà apertamente, e tu la scaccerai dai tuoi pensieri, senza un minimo di tatto. Ma anche se insistessi a spiegarti quali sono le spaventose conseguenze di quel rancore inespresso, alla tua età non comprenderesti”, dice Michinaga al figlio, ben cosciente del male che fa per estendere il proprio potere sulla corte. Nonostante questo, però, lui come molti altri uomini non rinuncia ad alimentare la spirale senza fine del rancore delle donne – più che altro perché è l’intera società in cui vivono a spingerli a farlo.
È amaro, Namamiko. L’interpretazione che Enchi dà del Giappone classico, del suo splendore ma anche della brutalità delle sue relazioni oltre le apparenze elegantissime, ha un riflesso anche sul presente: attraverso un romanzo stratificato, di cui sarebbe difficile nella pur bella traduzione di Paola Scrolavezza cogliere la complessità senza le ricche note e i brevi saggi inseriti a corollario del testo, Enchi utilizza l’epoca Heian per mettere in luce le contraddizioni e la sudditanza femminile nella società in cui si trova a vivere. E per quanto distante possa essere per un lettore occidentale tutto ciò a cui l’autrice fa riferimento, il fascino della sua voce colta e schiva e l’eleganza di un’ambientazione quasi di sogno, con personaggi che sembrano volare più che camminare per le sale profumate delle residenze imperiali di Heian, non può che ammaliare e lasciare il desiderio di immergersi ancora nel suo mondo.