Musica
Alla ricerca della luce
"Gigaton", il sussurrato grido di speranza dei Pearl Jam
di Emanuele Pon / 1 aprile
È il caso di dire che la surreale situazione nella quale ci troviamo, in certi casi, può – provocazione – aiutare.
Gigaton, ultimo disco dei Pearl Jam – l’undicesimo in studio – sembra fatto apposta per farci capire qualcosa di più a proposito di quello che sta succedendo.
Gigaton richiede tempo, probabilmente (anche) perché ne ha richiesto a sua volta: è il primo disco dei Pearl Jam in sei anni e mezzo, dai tempi di Lightning Bolt (2013).
Non solo: sei anni e mezzo di gestazione per un disco che, con 52 minuti di durata, è il più lungo della storia dei Pearl Jam. Fatto di per sé significativo, se si tiene conto della sempre più radicata mentalità d’ascolto “di brano in brano”, magari pure in shuffle.
I fan sono impazziti: Gigaton li ha messi di fronte al sempre più difficile compito di sedersi ad ascoltare un disco – consumandolo: vi ricordate quell’antico modo di dire, “quel disco l’ho consumato”? –, la quarantena e i social network hanno fatto il resto.
Così, Gigaton è all’improvviso un capolavoro assoluto, oppure un fiasco totale.
Qualcuno è arrivato a dire che Eddie Vedder canta male, tanto per rendere la portata delle autorevolissime critiche comparse in internet.
Per Gigaton ci vuole pazienza: questo non è il tempo della pazienza, abbiamo dimenticato da tempo come si fa ad essere pazienti, ed è per questo che la quarantena ci uccide a questo livello.
Gigaton non è una pietra d’angolo nella storia della musica: è bene chiarirlo subito, soprattutto dal momento che si sta parlando dei Pearl Jam, che di dischi fondamentali ne hanno sfornati almeno due o tre. Ma attenzione, qui viene la parte più importante: il disco è lontanissimo dall’essere un fiasco totale.
Si tratta di un disco denso, di non immediato accesso; un disco che, specialmente ai primi ascolti, costa fatica. Ma una cosa è certa: Gigaton ripaga chi sa aspettare, chi si dispone con umiltà a cercare di capire le architetture sonore e concettuali che lo sorreggono.
I Pearl Jam, innanzi tutto, si divertono: la prima impressione, ad un ascolto generale, è proprio che questi sopravvissuti (gli unici, o quasi…) del grunge siano riusciti a sopravvivere proprio facendo di testa loro, spesso anche contro il parere dei fan. Poi è arrivata l’inclusione nella Rock and Roll Hall of Fame: ora sono leggende, lo sanno, perciò fanno ancor più di testa loro. Questa è l’atmosfera che si respira. Ecco perché, per la prima volta, in Gigaton sentiamo influenze a cui non eravamo mai stati abituati.
La genialità, di solito, sta nel ripartire da un tono generale consolidato, per rimettersi in gioco: i Pearl Jam lo hanno sempre fatto – basti pensare a No Code, Yeld, Binaural, Riot Act – e Gigaton è una delle conferme migliori e più forti in tal senso. Solo dei giganti come loro potevano riuscirci: cinque – ormai – padri di famiglia che si divertono a suonare e non perdono l’amore, né la capacità, o il continuo desiderio, di sperimentare, di creare qualcosa di nuovo.
L’onestà di un’operazione del genere porta con sé sbavature, ed è per questo che Gigaton non è il forziere del tesoro con 12 riff a’ la Alive che molti fan desideravano. Ma “Alive” è un – fenomenale – pezzo del 1991, ed è questo che Vedder e soci non dimenticano: allora, da un certo punto di vista, Gigaton non è una macchina infallibile, ma qualcosa di più.
I singoli avevano anticipato qualcosa di nuovo, e di grosso: “Dance of the Clairvoyants” spariglia le carte, esplode il sound e lo ricompone, con una linea ritmica tutta da ballare e più di un’eco della new wave elettronica degli anni ‘80, quella fatta di Depeche Mode e di Cure. Eddie canta altissimo un testo anch’esso, come tutti quelli di Gigaton, altissimo – anzi, profetico in modo inquietante, ma d’altronde di chiaroveggenti si parla –, e l’esperimento funziona alla grande. Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, esce “Superblood Wolfmoon”: un brano più riconducibile al repertorio degli ultimi anni, ma i Talking Heads sono lì dietro l’angolo, nel canto e nel ritmo. Poi arriva Gigaton, in tutte le sue sfaccettature.
È curioso notare come i momenti più prolissi del disco siano proprio quelli in cui si è di fronte al classico Pearl Jam Sound: la schitarrata iniziale di “Who Ever Said” è eccellente, ma il brano si perde un poco nella seconda parte. Sembra quasi che Eddie e i ragazzi stiano jammando in studio tutti insieme: a sentire Josh Evans – produttore di Gigaton e rinfrescante mente dietro a tutto il viaggio – è esattamente questo che è successo, quindi lasciamoli divertire.
La seconda accelerata del disco è affidata a “Never Destination” e “Take The Long Way” che, dal canto loro, sono gli unici pezzi davvero dimenticabili di Gigaton: la prima è un chiaro omaggio agli Who di Quadrophenia (si sa, sorta di testo sacro per Vedder), mentre nella seconda Matt Cameron sforna una composizione che sembra una b-side di Superunknown dei Soundgarden, altra sua anima musicale.
Il resto di Gigaton è una scoperta dietro l’altra: il primo blocco del disco è concluso dalla cavalcata epica di “Quick Escape“, pezzo che oscilla tra i Led Zeppelin di “Kashmir” e gli Who, specie nel ritornello, e si conclude con un immenso assolo di McCready, che riecheggia quello di “Hey Joe” di Jimi Hendrix.
Segue un dittico in cui il ritmo rallenta: “Alright” è una ballata ipnotica scritta da Jeff Ament, che ricorda le ricerche sonore di Binaural. Il suo suono elettronico ed avvolgente trascolora nella maestosa “Seven O’ Clock“, senza dubbio il pezzo più ricercato di Gigaton, quello che ha richiesto al gruppo più lavoro. La fatica è ripagata: la canzone è uno dei migliori mid-tempo dei Pearl Jam, spaziando dai Pink Floyd di “Comfortably Numb”, evidenti nel ritornello, alla prima apparizione di un’influenza “nuova”, i R.E.M., in coda.
L’emozione vera e definitiva arriva con l’ultimo blocco di Gigaton, una sinfonia essenziale in quattro movimenti: si parte da “Buckle Up“, contributo personale del “chitarrista artigianale” Stone Gossard, una strana ninna nanna ipnotica e avvolgente, dal sapore beatlesiano, dove si stende, come la coperta di Linus, la voce di Eddie, che la farà da padrona da qui fino alla fine del disco.
Chi è stato a uno dei concerti solisti di Vedder in Italia non può non trovarsi con la pelle d’oca di fronte a “Comes Then Goes“: chitarra acustica, voce e poco altro, se non un arpeggio blues, il senso del tempo che passa, e la presenza del compianto Chris Cornell che aleggia su tutta la canzone.
La band rientra, ma sottovoce, con “Retrograde“: ballata corale e ispirata, in bilico tra la classica Just Breathe e le melodie dei migliori R.E.M., che fanno capolino di nuovo, tra inattesi inserti quasi prog.
Gigaton si conclude con un pezzo che i fortunati di Firenze Rocks 2019 hanno già ascoltato dal vivo, insieme a pochi altri nel mondo: “River Cross” è una poesia più che una canzone, la preghiera laica dei Pearl Jam, la loro messa universale officiata da Eddie e dal suo strabiliante pump organ del 1850.
Parole e musica dal sapore antico, per guardare al futuro: Gigaton parla di questo, dei possibili modi per reagire, per costruire un futuro, possibilmente alternativo a quello che vediamo sulla copertina, con un ghiacciaio in via di scioglimento. Possiamo arrabbiarci o chiuderci in noi stessi, anche con un po’ di sano egoismo, ma sarà sempre una presa di posizione individuale.
La verità, però, è che anche il peso della nostra energia si può misurare in gigatoni, se la usiamo nel modo giusto, se diamo vita a quella che Leopardi chiamava social catena.
Basta stare insieme, condividere la luce, e andremo avanti.
Share the light, won’t hold us down.
LA CRITICA - VOTO 8/10
I Pearl Jam, dopo trent’anni di carriera, continuano a mettersi in gioco. Non possono che riuscire, perché è proprio di questo atteggiamento che il mondo della musica, e forse anche noi, abbiamo bisogno.