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Libri

Di coriandoli e fotogrammi:
un viaggio intorno a B. Traven

“Coriandoli il giorno dei morti” di B. Traven

di Martina Mantovan / 18 aprile

Dimenticate per un attimo l’uomo, l’autore e concentratevi sulla penna. B. Traven è la penna dietro cui si cela un mistero, un inganno. E l’inganno sta sullo sfondo, si confonde tra le ombre, tra le foglie e le folle dei suoi fogli. L’autore lascia da parte la sua identità e la confonde, la rende patrimonio comune e si fa voce dei silenti e dei reietti di un’umanità antica e obliata.

Ingenuamente paragonato ad autori fantasma come J. D. Salinger o Thomas Pynchon, Traven ha in comune con loro solo la sottrazione della sua persona all’esposizione pubblica, poiché la dissoluzione dell’identità di Traven non ha nulla a che vedere con una mitopoiesi dello scrittore. L’immagine in dissolvenza dell’uomo dietro l’opera è in questo caso qualcosa di più radicalmente programmatico: nell’occultare il proprio io individuale vi è probabilmente un’esplicita volontà politica di lasciare emergere gli attori reali della storia, quegli ultimi che sono il sommerso e il rimosso dalla cosiddetta civiltà bianca.

E allora poco importa se dietro allo pseudonimo B. Traven ci sia Bruno Traven, Ret Marut, anarchico tedesco e attore di teatro, o il sindacalista Otto Feige. Traven è la penna che riprende ed elabora il discorso degli utopisti settecenteschi, prestando occhi, parole e vita agli indios del Messico.

In Coriandoli nel giorno dei morti (Racconti Edizioni, 2019), s’intravedono in traslucido i contorni, la sagoma dell’autore: lo si trova negli occhi del popolo messicano che osserva dal basso della terra ma ricorda dall’alto di una morale arcaica.

«Avevano provveduto a far sì, con un’abilità insuperabile, che a nessun visitatore straniero si offrisse la benché minima possibilità di scorgere che cosa nascondeva oltre i fondali. Dietro le facciate rutilanti languiva in cenci il novantacinque per cento del popolo messicano, il novantacinque per cento del popolo non possedeva neppure un solo paio di scarpe o di stivali, il novantacinque per cento del popolo campava nutrendosi unicamente di tortillas, frijoles, chile, pulque e tisane fatte con foglie degli alberi; oltre l’ottantacinque per cento del popolo celato da quelle facciate non sapeva leggere e oltre l’ottantacinque per cento non era neppure in grado di scrivere il proprio nome».

Non hanno nulla da perdere i protagonisti di Traven, nemmeno il loro nome, e così pure lui se ne priva. Se gli indios di cui narra le piccole vicende non hanno nient’altro che una saggezza fatta di sangue, sudore e lacrime di fronte ai soprusi dei potenti e dei gringos, allora anche lui può rinunciare all’affermazione di un’identità ipertrofica in favore di un’idea più grande di umanità. La sua penna si pone dunque al servizio di un’ideale: Traven diviene così l’ombra impalpabile e inscindibile dai passi dei suoi personaggi, osservatore e cronista delle loro gesta che, con un senso di benevolenza e fratellanza, traccia una linea netta tra sfruttati e sfruttatori che non lascia spazio ad ambivalenze.

Dove stanno i morti fioriscono i fantasmi: i fantasmi che infestano questi racconti si frammentano in brevi ritratti di rara incisività, miniature volatili e fugaci apparizioni nel flusso degli eventi. Sono le vite a pezzi degli esiliati dalle grandi narrazioni: peones, indios, malfattori, briganti, minatori, lavoratori, braccianti e operai; coloro che abitano il tempo dalla prima alba, ma non hanno gli strumenti per riappropriarsene.

Così un orologio diviene emblema di potere: oggetto dall’aura quasi totemica, se per Porfirio Díaz rappresenta occasione di sfoggio di autoritarismo, per un semplice minatore esso finisce per simboleggiare un riscatto sociale che appare sfumare come un miraggio. Perché se il sole del Messico è di tutti, non lo è altrettanto il controllo dei suoi spostamenti e, sotto quel cielo saturo, solo chi ne è privo si brucia la pelle.

«Sant’Antonio era troppo santo o troppo cocciuto per indursi ad aprire bocca, o forse era anche troppo avvezzo ai supplizi di primo grado per rivelare al primo colpo, vinto dalla paura, dove si trovasse l’orologio. Ma Silvestre, al quale nessuno aveva dato prova di compassione, praticamente, sin da quando era nato, ne dimostrò a Sant’Antonio tanta quanta ne aveva ricevuta lui. Visto che non gli rispondeva, lo calò un po’ più giù, finché i piedi nudi del santo sfiorarono l’acqua.
“Dov’è il mio orologio?” chiese di nuovo Silvestre. E di nuovo Sant’Antonio si sentì troppo superiore per rispondergli».

Non ci sono santi o miracoli per coloro che sfidano continuamente l’ordine costituito, per chi rifiuta apertamente di sottostare al marchio dei vinti, o di arrendersi a una sorte priva di qualsiasi possibilità di riscatto. Tutta l’opera di Traven si muove su tali coordinate e arriva a un buon successo di pubblico con la trasposizione cinematografica di alcuni suoi romanzi.

È il caso di Il tesoro della Sierra Madre, film che nel 1948 vede Humphrey Bogart e John Huston mettere in scena l’ascesa e la caduta di un gruppo di cercatori d’oro tra la polvere di un Messico gravido di promesse di gloria. Nel 1971 sarà poi sempre Huston a dirigere Il ponte nella giungla, dando un volto agli indios della giungla messicana al confronto con la presunzione bianca.

È invece di Roberto Gavaldón la regia della trasposizione di La rosa bianca (edizione del 1929, film del 1961), che narra dei tentativi di una compagnia petrolifera statunitense di appropriarsi dei terreni di un’hacienda, in un clima di crescente fermento e tragedia, alla vigilia del golpe di Victoriano Huerta.

La condizione del piccolo proprietario terriero creato da Traven e tradotto in immagini da Gavaldón trova inoltre un predecessore nelle lotte al di là del confine, nella California di Upton Sinclair che, con Oil!, aveva gettato solide fondamenta per una narrativa di denuncia sociale statunitense. Magistralmente adattato poi nel 2007 da Paul Thomas Anderson, Il petroliere (There will be blood) rappresenta sicuramente l’apice di un fortunato dialogo tra autori di matrice socialista e cinema, che ha radici antiche e profonde nel continente americano.

È sempre Upton Sinclair infatti a finanziare la produzione di ¡Que viva Mexico! (1931) di Ėjzenštein che per la sua epica messicana si ispira al testo di Edgcumb Pinchon, Viva Zapata, da cui successivamente trarrà ispirazione John Steinbeck per la sua sceneggiatura di Zapata (1952), diretto da un Elia Kazan legato alle tematiche progressiste e non ancora invischiato nella rete della delazione maccartista.

Ma colui che più di altri ha risentito dell’influenza di B. Traven e ne ha saputo portare i frutti a maturazione è Malcolm Lowry. È lui a portare il fascino e gli insegnamenti di Traven alla sua extrema ratio e compiutezza più alta: da studente si chiude a leggere i romanzi di Traven, prima di inebriarsi della vita e perdersi nella letteratura. Con Sotto il vulcano Lowry si dissolve nelle sue stesse parole, annegando nel suo flusso narrativo.

Se Traven sceglie la dissolvenza dell’identità tra uomo e firma a favore di un anonimato che è adesione a un moltiplicarsi di individualità, Lowry abbraccia invece la dissoluzione dell’uomo in favore dell’eternarsi della firma. Traven è in tutti i suoi personaggi, li accoglie e si scioglie in tutte le loro vite e morti; Lowry invece è lo sbocco verso cui finiscono per confluire tutti, riconfermandosi fino alla fine l’unico personaggio di tutta la farsa, letteraria ed esistenziale.

«A meno di trenta metri dal binario, da entrambi i lati, incominciava la giungla fitta, arida, inviolata, che mi parve d’un verdegrigio in questo momento nero, nell’oscurità morbida e vellutata della notte, dandomi l’impressione che mi si avvicinasse, lentamente, ma inesorabilmente. Mi veniva incontro cupa e inarrestabile, minacciosa, per afferrarmi con i suoi artigli, colmandomi il cuore di spavento: ero certo che se fosse riuscita ad avermi in suo potere mi avrebbe assorbito lentamente, si sarebbe succhiata tutto il mio essere, il mio cuore, la mia anima, senza lasciare di me neppure un paio di ossa che si sarebbero calcinate e avrebbero potuto raccontare ad altri uomini che una volta, nella notte, un essere umano era finito qui per sfuggire alla giungla».

Ci si perde nella giungla, o ci si perde nella vita: a entrambe non si può sfuggire se non rifugiandosi nella memoria di un mucchio di ossa. Sono i morti quindi i depositari delle verità dei vinti: quelli che ci fanno visita di notte per ricordarci di custodirne il lascito nella giungla in cui si smarrisce Traven, o quelli celebrati il 2 novembre all’ombra del vulcano di Lowry.

Nel 1984 sarà sempre John Huston a portare sul grande schermo il Messico dell’autoannientamento di Lowry che, nel giorno dei morti, decide di unirsi a loro per festeggiamenti, disperdendosi, forse, come uno dei tanti coriandoli della festa dell’ultima rivalsa, quella dei morti suoi vivi.

 

(B. Traven, Coriandoli il giorno dei morti, trad. di Lydia Magliano, Racconti Edizioni, 2019, pp. 211, euro 17, articolo di Martina Mantovan)