Libri
L’importanza degli spazi attraverso Calvino
Calvino e gli spazi nel tempo della quarantena
di Giusy Esposito / 2 maggio
Nella scrittura calviniana e nella sua particolare visione del mondo, che in parte sono la medesima cosa, è fondamentale la concezione degli spazi. Gli spazi intesi sia geometricamente, sia come luoghi, come spostamenti, come modi di vivere, come modi di attraversare il mondo. In questo momento storico così particolare che stiamo vivendo, siamo di fronte a una nuova concezione dello spazio, degli spostamenti, di nuovi modi per attraversare il mondo che comporteranno un nuovo modo di pensare e un ulteriore nuovo modo di vivere la vita di tutti i giorni.
Gli spazi casalinghi che ci sembravano accoglienti, la casa che ci aspettava dopo una giornata di lavoro, è diventata la nostra piccola caserma quotidiana, dalla quale non possiamo uscire. Gli spostamenti prima quotidiani, il percorso da fare in metro per andare al lavoro, la corsa al supermercato, le prenotazioni per cenare fuori, le lunghe passeggiate a piedi, la passeggiata domenicale per andare a comprare il gelato, non ci appartengono più. Torneranno, sì, ma quando torneranno sarà cambiato il nostro modo di viverli.
Attraverso la lettura dei libri di Calvino, le sue interviste, il suo pensiero, è in risalto l’importanza degli spazi e risulta interessante la visione degli spazi calviniani messa in luce da Silvio Perrella (Calvino, Laterza, 1999), il quale osserva quanto abbia inciso la verticalità difficile della città di Sanremo, fatta di terrazzamenti lavorati in spazi limitati, dove gli occhi di chi osserva il mondo esterno sono costretti a un movimento tra l’alto e il basso, mentre la parte orizzontale è visibile solo in lontananza, con la visione del mare. Evidenzia come la mente di Calvino abbia dunque ricevuto la «prima impronta delle cose» in questo spazio verticale, in cui Calvino guardava un mondo in pendenza, un mondo di «linee spezzate e oblique tra cui l’orizzonte è l’unica retta continua».
«Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, nella regione un tempo detta “punta di Francia”, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori dal nostro cancello e dalla via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte […] e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri e pali di vigne e il verde» (I. Calvino, Romanzi e racconti III, Meridiani, Mondadori, 1994).
A questa verticalità ligure, che ha segnato i suoi primi vent’anni, viene contrapposta la geometria della città di Torino, una città lineare, orizzontale. Così come Marcovaldo amava camminare in mezzo alle strade, allo stesso modo Calvino amava attraversare il mondo in diagonale, lungo le strade interminabili della città, quelle lunghissime rettilinee deserte. Così nacque un nuovo sguardo, uno sguardo orizzontale fatto di linee che sembravano andare all’infinito. Da qui deriva la sua visione geometrica e un po’ stilizzata dell’arte narrativa.
Spostando l’attenzione al mondo attuale, ai tempi della quarantena e del Covid-19, è normale interrogarsi sull’influenza dei “nuovi spazi”. Su quanto le strade deserte, i mezzi di trasporto semivuoti, le file fuori dai supermercati, le aule vuote di scuole chiuse, le chiese senza fedeli, influenzeranno la nostra visione del mondo. Perché se da una parte l’orizzontalità o la verticalità di spazi differenti hanno influenzato la visione di Calvino e tutta la sua narrativa, dall’altra occorre ricordare che anche l’emotività è legata agli spazi.
Non si tratta soltanto di geometrie e luoghi, ma anche di spazi emotivi. La verticalità di Sanremo era senza dubbio associata allo spazio della sua famiglia, le figure rigide dei genitori che talvolta compaiono nelle sue opere; l’orizzontalità torinese invece era quella di casa Einaudi. Parlava di Torino come, più che di una città, di una persona, di una vita di insegnamenti che giravano attorno a Cesare Pavese.
E così come Torino per lui significava Pavese, allo stesso modo Milano per lui era Vittorini. È il Calvino ossessionato dal mondo là fuori, dagli spazi, lo stesso che in un’intervista, presente nel volume Sono nato in America… Interviste 1951-1985 (Mondadori, 2012), disse: «Torino come città tutta a linee rette soddisfaceva un mio bisogno d’ordine, che c’è sempre. Una volta volevo scrivere un racconto (e forse prima o poi lo scriverò) di uno che viveva tra Milano e Torino e la sua psicologia cambiava continuamente nel passare da una città a pianta circolare a una città a pianta quadricolare».
Gli spazi che viviamo non si possono separare dalle persone che li abitano. Tanto meno dai momenti storici che si vivono in un luogo anziché in un altro, né dai pezzi di vita che attraversiamo. Torino è uno spazio emotivo di Calvino, è Pavese, è soprattutto la sua Torino letteraria.
«La mia Torino letteraria s’identificò soprattutto con una persona, cui ebbi la fortuna d’esser vicino per alcuni anni e che troppo presto mi mancò: un uomo di cui molto ora si scrive, e spesso in modo che a stento si riesce a riconoscerlo. […] Parlo di Cesare Pavese. E posso dire che per me, come per altri che lo conobbero e lo frequentarono, l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l’insegnamento di Pavese. La mia vita torinese porta tutta il suo segno. […] Fu lui, infine, che m’insegnò a vedere la sua città, a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline». (Album Calvino, a cura di L. Baranelli e E. Ferrero, Mondadori, 1995).
Dopo Sanremo e Torino è il turno di Roma. Roma è lo spazio della vita “matrimoniale” con Chichita, uno spazio diverso da tutti gli altri, né verticale, né orizzontale, né quadrato. Una città che definisce simpatica, anche se troppo rumorosa, fatta di cupole e tetti triangolari, opposti elementi geometrici si intersecano, strade strette affiancano piazze enormi. E i supplì. Quelli che oggi ci mancano tanto, quelli serviti in piattini di alluminio, quelli consegnati a domicilio con una pizza margherita, i supplì di Roma, che non sono arancini e non sono palle di riso, sono i supplì di Roma e basta.
«Roma è una città molto simpatica. La cosa che mi piace di Roma sono i supplì, gli arancini di riso, la varietà di panini imbottiti, tutte queste cose che si possono mangiare nei bar, e che costituiscono una forma speciale di civiltà che non esiste nel resto del mondo. Il poter mangiare camminando per la città, senza sedersi a tavola, cose varie e non banali, mi pare che sia un grande conforto, specialmente per un uomo nervoso e impaziente. Cioè la città rende nervosi e impazienti ma dà anche qui minimi conforti che ti permettono di sopravvivere» (Sono nato in America…Interviste 1951-1985).
Sono cose varie e non banali, sono minimi conforti che noi oggi possiamo sentire come tali e che ieri vedevamo come banali. Torneremo a mangiare supplì per strada, ad attraversare strade strette fatte di case e piazze enormi piene di turisti. Torneremo nei nostri spazi di sempre e li troveremo diversi. È tempo di trovare conforto nelle microgioie quotidiane.