Libri
Il Sud per affermazione e negazione
Una conversazione sull’immaginario con Omar Di Monopoli
di Giovanni Bitetto / 30 giugno
Scrivere significa, primariamente, rapportarsi a un immaginario. Ci sono immaginari già decodificati, orizzonti estetici dalla forte evidenza simbolica, altri invece da costruire o trasformare. Ogni scrittore si rapporta, per affermazione o negazione, a un certo immaginario di riferimento. L’immaginario meridionale, per gli scrittori che provengono da certe latitudini geografiche, è un orizzonte evocativo, che può costruire un universo stabile in cui ambientare una storia oppure, al contrario, se frequentato male può diventare una cassetta degli attrezzi usurata, insomma sfociare nello stereotipo. Sta allo scrittore che decide di rapportarsi con questo patrimonio rimanere in equilibrio fra ciò che è iconico e ciò che può dirsi elemento innovativo. Si tratta di un discorso complesso, su cui mi interrogo da un po’ di tempo, sin da quando ho preso la penna in mano per scrivere il mio primo romanzo (Scavare, Edizioni Italo Svevo, 2019). Per rifletterci su, sviscerandone alcuni aspetti, ho coinvolto Omar Di Monopoli, che l’immaginario meridionale lo frequenta da anni, rinnovandolo nei suoi romanzi. Ne è uscita una bella discussione in cui si evince, oltre alla poetica di Omar, il raffinato gioco di leve che mette in atto lo scrittore quando decide di trafficare con determinati codici simbolici.
Giovanni Bitetto: Nei tuoi romanzi c’è uno studio sull’immaginario a molteplici livelli. Il primo immaginario sul quale vai a operare è quello del Meridione. Si tratta di un Sud che ha degli elementi atavici, ma che trova anche espressione in una certa forma cinematografica. I paesaggi che racconti riecheggiano un certo western americano, potrebbero essere presi da un film di John Wayne o da un racconto di McCarthy. Mi colpisce molto invece come nei tuoi libri questo immaginario sia pieno, e non solo di una simbologia usurata, ma capace di esprimersi in forme moderne. Come ti approcci tu a un immaginario già dato, come scegli di costruirlo e modificarlo? E secondo te qual è un modo efficace di farlo nel contesto culturale di oggi, senza risultare scontati?
Omar Di Monopoli: Provengo dal fumetto (robaccia ciclostilata, esperienze universitarie decisamente underground) e poi dal cinema low budget, ambiti in cui ho affinato giocoforza una scrittura molto “visiva”, profondamente sradicata cioè dalla rappresentazione dei moti dell’Io in funzione invece di un utilizzo narrativo dello sguardo, di ciò che “fuori” e “attorno” ai miei personaggi – scuola americana, se vogliamo, per la quale la descrizione della natura mira a essere il perfetto contraltare del panorama interiore dei personaggi –, quindi con gli anni ho lasciato sedimentare in me una visione della terra in cui sono cresciuto figlia di altri media, altri spazi, altre latitudini. Ma per me la Puglia era, già nelle torride estati di ragazzino negli anni Settanta, speculare alle piane sconfinate dei western che divoravo al cinema con mio padre, e i colori del posto in cui vivo (una profusione di ocra e toni di marrone, perennemente smossa da nervosi dervisci di vento) mi hanno col tempo aiutato a consolidare questa mia idea. A questo si aggiunga l’indole sorniona e stracca tipica di chi vive dalle mie parti, gente abituata a secoli di soffocante scirocco e a un sole spaccapietre che blocca ogni impeto, ogni guizzo: sono cresciuto immerso in una sfolgorante brulicare di peones dalla sigaretta pendula sul labbro, il volto crepacciato dal lavoro nei campi e la mimica facciale ridotta al minimo: puri cowboy del Salento – ma questo l’aveva già intuito Sergio Leone, che da noi veniva non di rado a pescare le facce giuste per i suoi messicani posticci (in Il buono, il brutto, il cattivo lo sceriffo cui il Biondo fa saltare il cappello per salvare Tuco dalla forca era del mio paese, la sua famiglia abita ancora a uno sputo dal mio quartiere). Quindi mi è venuto spontaneo rielaborare attraverso il mio background formativo il paesaggio che già mi apparteneva.
GB: Un altro discorso che fai nelle tue opere è quello del genere. Sappiamo che la nostra cultura è finalmente matura per sdoganare ogni tipo di narrazione: oggi, nei contesti più avveduti e speriamo presto anche in certe roccaforti commerciali dure a morire, il romanzo borghese ha perso il suo ruolo di centralità. Anche altri generi sono percepiti come “narrativa seria”. Le tue storie non rinunciano alla letterarietà ma allo stesso tempo si muovono veloci nel territorio del giallo, con l’aggiunta di essere in un certo senso “cinematografiche”. Alla luce di tutti questi elementi, quando ti approcci a una storia come decidi che direzione darle, quale taglio conferirle?
ODM: Credo di essere agevolato dal fatto che, come dicevo sopra, non ho avuto una formazione lineare (ho davvero letto di tutto, passando da Joyce a Liala senza soluzione di continuità) e pertanto credo di approcciarmi alla pagina bianca senza pregiudizi di sorta: so che devo anzitutto raccontare una storia, e questa è la mia prima, irrinunciabile priorità. Sono naturalmente molto attaccato al concetto di stile (i critici qualche volta mi hanno definito “iperletterario”, che è un modo mica tanto sottile per dire che esagero con i barocchismi, ma la mia è una scelta espressionistica consapevole) e quando scrivo il vero rovello diventa semmai per me trovare la parola esatta, quella che meglio definisce ciò che devo e voglio dire (ovviamente è una nevrosi: la pia illusione di un ossessivo-compulsivo di scampare alla morte attraverso l’identificazione del vocabolo giusto) ma in linea di massima confido nella mia vena lirica, soprattutto in quel bacino di storie di cui la mia terra continua quotidianamente a farmi omaggio (credo si possa tranquillamente affermare che dal 2007, anno dell’esordio con Uomini e cani, io stia scrivendo un unico, lungo romanzo corale; non a caso l’idea di “contea” letteraria cara a Faulkner è per me un faro, un modello: e libro dopo libro il mio intento è quello di costruire una toponomastica personale scandita da un’unica continuity, con la stessa masnada di personaggi che s’incrociano, le loro vite che si perdono, i fatti che accadono, delitti e amori che si consumano)
GB: Collegandomi a quanto detto prima: costruire un mondo significa adottare e riflettere su una determinata lingua. Tu fai un’operazione particolare sulla lingua, implementando un impasto dialettale desueto, o che almeno non trova riscontro nella letteratura “ufficiale”, ovvero il dialetto pugliese con le sue mille variabili. D’altronde questo è un modo per dare voce al mondo e alle categorie di pensiero dei tuoi personaggi, a un sistema di valori che si esprime tramite una determinata lingua. Che studio fai sul tuo stile?
ODM: Poiché il grosso dei personaggi che bazzica i miei romanzi sono umili bifolchi e criminali di basso cabotaggio la scelta del vernacolo si è imposta in maniera pressoché naturale, non potevo far parlare come damerini gente abituata a esprimersi per geremiadi gutturali e bestemmie. Ma la tenuta dell’intera impalcatura linguistica rappresenta per me da sempre una sfida, quella cioè di riuscire a giustapporre due registri: quello aulico ed evocativo che non si perita di ricorrere a un italiano anche arcaico (sulla scorta dei grandi maestri del Southern Gothic cui guardo con voracità ma anche degli sperimentatori meridionali nostrani: i Bufalino, i Consolo, i Bodini, scrittori che non a caso col dialetto hanno flirtato spesso) e uno invece più terra-terra, popolare nella maniera più abietta e rude, ma al contempo divertente: il dialetto, non scordiamolo, possiede in sé una vivacità ingovernabile, che resiste all’usura del tempo nonostante l’accanimento dei neologismi anglosassoni. Inoltre sono solito guardare alla composizione della pagina come a quella di una partitura musicale, una architettura insomma in cui non necessariamente il fruitore del prodotto finale deve saper riconoscere il suono di ogni strumento, poiché l’importante è “entrare” nelle malie della sinfonia globale, lasciarsi guidare da essa. Non è facile riuscirci, me ne rendo conto, ed è anche un tantino presuntuoso pensare di farlo, ma quando ciò accade sia per il lettore che per l’autore è una goduria.
GB: “Noir mediterraneo” è una definizione che mi piace per i tuoi libri. Perché si sente forte il senso di decadenza che sta dietro a un certo orizzonte e immaginario meridionale. La ferocia della riuscita, il tentativo di sopravvivere soverchiando l’altro, insomma una certa crudeltà declinata nel contesto di appartenenza, è l’orizzonte valoriale che trovo declinato nei tuoi libri. Allo stesso modo che con la lingua ti chiedo: qual è lo studio che fai sui personaggi, sulle loro psicologie?
ODM: Io parto sempre da alcuni tropi universali per innestarli poi su fisionomie di persone realmente esistenti. Adatto degli archetipi, ovviamente, cosa comune tra gli scrittori di genere. Di mio direi che ho capito da tempo l’importanza, nel mio lavoro, di saper essere una spugna: fin da quando ero giovanissimo tornavo a casa da scuola o dalle feste con la testa piena di voci, quelle dei compagni, dei bidelli, della professoressa e delle ragazzine che mi piacevano. Tutte persone con le quali non avevo magari saputo – o voluto – comunicare apertamente (sono conscio del fatto che vi sia molta materia per gli psicologi in ciò che sto confessando) ma che avevo registrato attentamente, assimilato fin nei minimi particolari: uno scrittore è, per certi versi, un imitatore mancato: nella mia testa frullavano (e frullano) decine di caratteri che ora ho imparato a modellare, plasmare secondo le esigenze della storia che intendo raccontare. Osservo, cercando di mimetizzarmi in chi guardo. Poi ovviamente ho ormai una routine mia: in linea di massima quando m’incaglio in una impasse e qualcosa nel meccanismo del romanzo che sto scrivendo non mi convince penso a come si muoverebbe un personaggio dei Coen e lo adatto ai topoi pugliesi: sostituisco il pick-up con l’Apecar e la follia dei killer messicani con quella dei sicari della Sacra Corona Unita. Dico un po’ per dire, ovvio, ma per applicare questo genere di rimodulazione bisogna conoscere perfettamente entrambe le tipologie di criminale. E io vado in giro con il taccuino (mentale) sempre aperto, pronto a registrare…