Libri
Ascoltare il proprio orizzonte interiore
Una conversazione su immaginario e Meridione partendo dai due esordi: “Scavare” e “Arruina”
di Giovanni Bitetto e Francesco Iannone / 28 luglio
Continuano le conversazioni tra scrittori e questa volta abbiamo chiesto a due giovani autori, Francesco Iannone e Giovanni Bitetto, di dialogare seguendo un minimo comune denominatore, quello delle “scritture del Meridione”, partendo dai loro rispettivi esordi: Arruina (ilSaggiatore, 2019) – una fiaba dark che mescola le antiche storie del Cilento e le immagini nitide e crude delle serie tv gotiche – e Scavare (Italo Svevo, 2019) – il monologo allucinato di uno scrittore di successo, la notte della morte dell’amico/rivale filosofo, nel ricordo di esistenze intorbidite da una provincia del Sud cupa e alienante.
Giovanni Bitetto: Una volta, parlando con due scrittori del Sud – Orazio Labbate e Andrea Donaera –, abbiamo constatato come nei nostri romanzi l’immaginario meridionale sia trattato in modo straniante. Per Labbate è carico di reminiscenze grottesche, per Donaera è velato di onirismo, nel mio caso lo straniamento è dato dalle categorie stravolte che sono il filtro cognitivo di un narratore davvero inaffidabile. Anche il tuo romanzo naviga fra il favolistico, il folklorico e il grottesco. E di casi del genere se ne potrebbero citare a bizzeffe. Non v’è dubbio che un certo modo di narrare il Sud in maniera “irreale” sia parte della nostra tradizione, ma secondo te perché queste modalità di scrittura si stanno riproponendo proprio nella contemporaneità? Vi è forse una reazione a quella supposta “fame di realtà” che affliggeva tanta narrativa sociale – e nei casi meno riusciti stereotipica – delle scritture meridionali dei decenni precedenti?
Francesco Iannone: Qualche tempo fa, era da poco uscito Arruina, lo ricordo bene, un noto critico mi disse, con una certa severità, che avrebbe rifiutato la lettura del mio romanzo perché di Salerno, Arruina è difatti ambientato a Roccagloriosa, paesello dell’entroterra cilentano, ne avrebbe voluto conoscere non la favola ma le abitudini effettive attraverso descrizioni credibili e riconoscibili. Ne avrei dovuto raccontare forse i disagi reali, quei vuoti tanto cari a Scavare, quelle voragini emotive dentro le quali per esempio si affatica il protagonista del tuo romanzo. Vuoti che si sommano ad altri vuoti, che ci precedono e che ci superano restituendoci a un immobilismo esistenziale tragico. E questo è, a sua volta, un modo, un approccio, una visione. In Arruina invece tutto sembra anacronisticamente arcaico, il presente divora se stesso in un senza tempo giustificabile solo nel simbolo. E tornando all’ammonimento del critico a cui facevo riferimento sopra, ti confesso che la prima istintiva reazione mi spingeva ad assecondare le sue obiezioni aumentando in me quel senso di colpa dovuto all’impiego (furbo?) di un immaginario obsoleto e figlio dell’ignoranza e della superstizione. Poi però, guardando alle diverse narrazioni “meridionali”, augurandoci che si possa vincere il vizio dell’incasellamento semplicistico, ho avuto ben altri pensieri. E cioè che le trasfigurazioni che spesso entrano con prepotenza nei nostri racconti non sono astuzie letterarie messe lì per accattivare il lettore (ammesso che questo sia così sprovveduto), sono invece radice della realtà, sangue che gonfia le vene della parola, scaturigine di ogni impeto del cuore e del corpo. Non siamo noi ad abitare per scelta la suggestione antica ma è lei che ci abita ed è l’aria stessa che avvia la meccanica dei nostri polmoni. E quindi, se si racconta un vuoto (del quale il disagio culturale o professionale è solo un pretesto perché di ben altri vuoti si tratta) come in Scavare o di Ianare (streghe) come faccio accadere in Arruina o meglio, come Arruina fa accadere in me, non stiamo utilizzando nessun espediente perché quel vuoto e quelle entità del bene e del male esistono allo stesso modo del bar in piazzetta e dei vecchi che ne affollano i tavoli. Siamo tutti protesi oltre l’orlo del grande cratere e al sud questa sensazione diviene un fatto fisico, esperibile, ecco il vuoto di Scavare, siamo tutti nella grande bocca del bene e del male e ognuno si rannicchia nella crepa del dente buono o di quello ammalato, ognuno come sa, come può. Non c’è rappresentazione, per quanto disarticolata e apparentemente priva di logica, che non ha una sua corrispondenza nella realtà. Perciò il sud è solo esaltazione di ciò che altrove vive respirando sotto una coltre di polvere.
GB: Ancora a proposito di straniamento: il vettore per metterlo in atto è la lingua. La mia punta a essere grottescamente borghese, come la percezione dei personaggi che vogliono in un certo qual modo distanziarsi da un orizzonte che li aggredisce, e che pure rappresenta la loro origine. La tua riprende dal racconto orale e dalla poesia. E ancora una volta si potrebbero fare esempi di altri narratori con il proprio stile peculiare volto a una certa letterarietà. Persino uno scrittore che punta a essere “di genere” come Omar Di Monopoli ha una sua lingua impreziosita di manierismi. Quindi mi pare un altro tratto distintivo di certi narratori meridionali. Che anche questo sia un filtro, uno strumento ulteriore adoperato per mutare un immaginario forte e che quindi necessita di maggiore consapevolezza per essere attraversato in tutti i suoi aspetti?
FI: La lingua è un corpo. Un corpo con tutte le sue vibrazioni, i suoi volumi, i suoi impeti ritmici e percussivi. La parola è una scatola di sensi mai univoci. Quando un autore decide di impiegarla in un certo modo, lo fa, o dovrebbe farlo, funzionalmente alla narrazione. Solo così può salvarsi dal pericolo della “maniera”. Per esempio, non potrei immaginare Scavare se non con quella lingua, con tutte le sue freddure borghesi e linearità asfittiche. Allo stesso modo Arruina non potrebbe essere ciò che è, prescindendo dagli esiti, se non con quella lingua, che è stordente, respingente, fortemente antinarrativa. Si sta nel testo come il batacchio dentro il bronzo di una campana perché non sia il lettore ad avere governo sul racconto ma il racconto ad afferrarlo per le caviglie per trascinarlo giù, nell’incubo (interiore?) dei suoi ipogei.
GB: Dopo aver pubblicato Scavare, e dunque essermene definitivamente distanziato, mi sono accorto che ho raccontato il Sud per “negazione”, ovvero delineandolo attraverso quei vuoti che in un certo modo mi provocavano disagio. Al contrario tu in Arruina prendi di petto il patrimonio folklorico della tua terra vivificando la realtà attraverso la favola. Anch’io mi propongo in futuro di scrivere “affermando” il Sud e non negandolo. Come hai agito in questo senso? Suppongo che anche tu abbia individuato, a distanza di tempo, delle criticità nel tuo operato.
FI: Arruina è un suicidio emotivo e letterario. È lo strangolamento del sangue. Non scriverò mai più nulla di simile, ammesso io decida di vivere.
GB: Un’affermazione molto forte, che in un certo senso corrobora ciò che ti sto per dire. Infatti anche nel tuo romanzo vedo agire una certa figura della “fuga”: quello dei protagonisti impegnati in questa sorta di viaggio-ricerca che non è altro che fuga dal loro stato iniziale. Proprio come i due personaggi di Scavare che scappano al Nord pensando di allontanarsi dai dolori che hanno provato durante l’infanzia. Anche solo parlando ora mi rendo conto che il rapporto dolore-infanzia è presente sia nel mio che nel tuo romanzo (nel tuo è proprio un trauma infantile, un furto). Ci sono dunque figure ricorrenti in esperienze così eterogenee, ma che partono tutte da un orizzonte simbolico più o meno condiviso.
FI: La fuga è un elemento ricorrente tanto in Scavare quanto in Arruina. Ma in entrambi i romanzi più che un’erranza, quello dei protagonisti è un vero e proprio ritorno. Il nodo si stringe sempre nel punto di una verità che ci appartiene e che però va ri-guardata, ri-affermata per splendere di nuovo o per annerire definitivamente. In Arruina per esempio i protagonisti, perché è stata loro misteriosamente sottratta, cercano la Sperduta. E cos’è la Sperduta se non ciò che manca, il moncone che il corpo anela a ritrovare? Qualcosa si è interrotto con la nascita, in Arruina per esempio nasce la Sperduta e le acque che abbeveravano le Ianare si prosciuga, e ciò che si è interrotto in origine si ricomporrà solo alla fine. E nel frattempo? Si vive.
GB: Per chiudere il cerchio, penso che una certa pratica di raccontare in modo grottesco il proprio ambiente d’origine sia il futuro. Il perché è presto detto: il mondo ha raggiunto una complessità tale che è più irreale che reale, solo una certo stile visionario può tenere insieme i frammenti irrelati di questa realtà. E allora sarà più facile che ci riesca chi già nel proprio orizzonte simbolico ha quegli strumenti di straniamento forniti dalla propria cultura di origine. Uno straniamento ben presente nelle scritture meridionali. Sono troppo ottimista?
FI: Il grottesco, guardando alla radice della parola, “grotta”, è per me ciò che si nasconde all’interno con tutte le sue possibilità e contraddizioni. La realtà, ciò che intimamente pulsa in essa, è tutta sedimentata nei frastagli. Ed è lì che deve agire il punteruolo della parola, il dente del suo scalpello. La grotta è il luogo dello spavento e dell’attesa, le due forze motrici che agitano la vita umana.