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Il banchetto delle vanità

Su “I divoratori” di Stefano Sgambati

di Giulia Eusebi / 15 settembre

I divoratori, nuovo romanzo di Stefano Sgambati (Mondadori, 2020), si offre al lettore come una rapida rassegna delle storture dei nostri tempi. Ovviamente non vengono presi in esame tutti i mali del mondo ‒ il lavoro sarebbe immane ‒, l’autore invece si concentra sue tre grandi questioni: la ricerca della perfezione, la bramosia di voler apparire e di voler “sentire” e l’ambizione di scalare la piramide sociale.

Con un impianto narrativo che può ricordare una pièce teatrale, nel romanzo di Sgambati tutto accade in un solo luogo, si svolge nell’arco di una serata ‒ fatto salvo digressioni e flashback ‒ e segue le vicende di una serie ben precisa di tipologie umane ‒ per certi versi anche stereotipate ‒ che servono all’autore per affrontare le grandi questioni di cui sopra.

Come dichiarato dal titolo stesso, I divoratori appunto, tutto si può ascrivere all’area semantica del cibo, del mangiare, del consumare. È proprio sul consumare, però, che si impernia quanto narrato da Sgambati, ed è curioso notare come la parola “consumare” possegga una doppia etimologia, quella che indica il portare a compimento, alla perfezione (cum e summa), e quella che si riferisce alla progressiva riduzione, sottraendo un po’ per volta fino a far scomparire (cum e sumere).

Siamo a una cena nel prestigioso ristorante di un celebrity chef e in posti del genere si va, sì, a mangiare pietanze raffinate accompagnate da sofisticati abbinamenti di vino, ma soprattutto si va per soddisfare un’altra fame: quella di consumare gli altri con lo sguardo e di farsi a propria volta consumare, in un vortice voyeuristico che può dare il mal di testa. Se a una cena in un simile luogo, poi, inserisci anche la presenza di una coppia di attori hollywoodiani, il lettore si ritrova davanti a un banchetto che ha la carne umana come sua portata principale.

L’umanità/menù messa in tavola è il solito bestiario: coppie di conoscenti che sono finiti a copulare insieme per poi ritrovarsi a fare i conti con una necessità ‒ più sociale che d’istinto ‒ di una vicinanza sgradita a entrambi; l’essere antropomorfo costituito dal binomio professore-giovane ragazza, dove la metà anziana succhia linfa alla parte più soda e fresca, mentre quest’ultima si alimenta dell’odore muschiato di chi è più vicino alla decomposizione ma che freme comunque dalla voglia di possedere; c’è chi si è staccato in modo netto dalla propria famiglia/branco e tra apatia e violenza si fa spazio nel mondo; e poi, la creatura per eccellenza, l’Unicorno, l’attore che incarna una perfezione in un certo qual senso subita e schiavizzante.

Partendo da questi presupposti, il lettore si trova davanti a una narrazione che procede a salti, e i capitoli si susseguono con un costante cambio di voci e di punti di vista che sul finire del romanzo diventa quasi confondente.

Sgambati vuole portare su carta il malessere che si sprigiona da queste sue creature, sia il malessere provato sia il malessere inflitto, e desidera che tutto quanto venga percepito come vero, concreto, fino a una crudezza quasi splatter. Per fare ciò sceglie la strada della creazione di un universo narrativo prêt à imaginer, dove i riferimenti a fatti cose e persone reali ‒ se non esplicitamente dichiarati ‒ sono facilmente desumibili, ammiccando così al lettore stesso e invitandolo a cercare in questa nassa di citazioni.

In I divoratori, nessuno è veramente a suo agio nel proprio ruolo e le situazioni descritte riflettono un gusto per il parossismo che spinge la narrazione a toccare apici stranianti, urticanti, verso cui si tende a prendere le distanze perché avvertiti come eccessivi.

Per raccontare questa società che si sfama mangiando il suo stesso cancro, in una mise en abyme che scivola via sempre uguale a se stessa, Sgambati opta per una lingua intrisa di cinema, che punta all’effetto e che galleggia sopra al mare di vacuità che ha affogato la società dei nostri giorni.

Calato il sipario e a banchetto concluso, al lettore non resta che trarre le sue conclusioni, domandandosi qual è il proprio grado di cannibalismo.

 

(Stefano Sgambati, I divoratori, Mondadori, 2020, 204 pp., euro 18, articolo di Giulia Eusebi)