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Cinema

Il diavolo ovunque, per tutto il tempo

di Emanuele Pon / 2 ottobre

Che l’indagine sull’esistenza, la persistenza e la forma del Male nel cuore degli uomini sia uno dei temi più frequentati dalle narrazioni popolari contemporanee, lo dimostrano gli ultimi (almeno) vent’anni di cinema e serie TV, americane e non solo: cosa tiene insieme Mystic River (2003) di Eastwood, e gli Oscar a Non è un paese per vecchi (2007) dei Coen? E cosa lega il successo planetario di serie come Breaking Bad (2008-2013) o della prima stagione di True Detective (2014)? Si tratta, per l’appunto, di storie che hanno come obiettivo l’esplorazione delle varie fisionomie che il Male può assumere nei nostri tempi, a seconda degli animi e dei contesti in cui risiede. A queste si sono sovrapposte, nel tempo, altre esperienze, da Peaky Blinders (2013-in corso) a Lawless (2012) di John Hillcoat: ecco che si passa allo studio delle forme del Male nel corso del tempo, piuttosto che nella nostra contemporaneità.

A questo punto abbiamo già fornito quasi tutti i supporti teorici per comprendere l’operazione che Netflix ha intrapreso con la produzione di Le strade del male. Un’operazione, si può dire, con cui il colosso dello streaming cascherà comunque in piedi – e forse è proprio per questo che ha deciso di affidare la regia del film a una relativa new-entry come l’italo-brasiliano Antonio Campos –, proprio in virtù del sicuro e collaudato appeal di queste atmosfere narrative.

Per parlare di Le strade del male, però, è necessario fare riferimento all’universo della letteratura, ancor più che a quello del cinema. Il film, infatti, è la trasposizione cinematografica del romanzo The Devil All the Time (2011) dell’autore americano Donald Ray Pollock. Non solo: è lo stesso Pollock, infatti, a costituire la voce narrante del film. Alle sue parole, che raccontino o descrivano, è demandata la nostra discesa nell’atmosfera gotica, cupa e inquietante di questo intreccio di storie.

La voce narrante dell’autore è in effetti utile, perché Le strade del male si estendono in lungo e largo, occupando uno spazio e un tempo narrativo molto ampi. Le origini di questo Male, che ci accompagnerà fino alla fine e probabilmente oltre, stanno nella guerra: la seconda guerra mondiale, da cui è reduce il marine Willard Russell (Bill Skarsgard). Willard ritorna a casa con il corpo ma non con la mente, essendo rimasto traumatizzato dalla vista di un suo commilitone crocifisso dai giapponesi: il compagno agonizzava, lui ha dovuto dargli il colpo di grazia, macchiandosi di un’oscurità che non riuscirà più a scrollarsi di dosso. Da qui in avanti, il film funziona come la prova narrativa del fatto che esiste un’alternativa macabra al noto motto biblico: anche le vie del Male, oltre a quelle del Signore, sono infinite. Pollock e Campos si coalizzano, fondono cinema e letteratura per dirci, eccole qui.

Così, le vicende di Willard e della famiglia Russell si intrecciano a quelle della coppia di serial killer Carl e Sandy Henderson, che si conoscono nello stesso luogo e nello stesso momento in cui Willard conosce la sua futura moglie, la barista Charlotte. Tra i due nascerà un amore che si trasformerà presto in matrimonio, osteggiato dalla madre di Willard, che aveva promesso a Dio che, se il figlio fosse tornato dalla guerra, lo avrebbe fatto sposare con la pia Helen.

Il germe del diavolo si annida, così, anche (e forse soprattutto) nelle unioni amorose, che a ben vedere danno origine a ogni evento successivo. Willard non rispetterà il volere della madre (e dunque di Dio), e dalla sua unione con Charlotte nascerà Arvin (un Tom Holland che riesce bene nel tentativo di svestire i panni patinati e disneyani di Spiderman), secondo e più importante protagonista di Le strade del male. D’altro canto, Helen si è sposata con un uomo devoto quanto lei, il predicatore Roy, ossessionato dalla presenza di Satana nel mondo terreno e dalla possibilità di resuscitare i morti.

Né Dio né il Diavolo in questo film giocano a dadi: non ci sono coincidenze, solo strade già scritte per ognuno dei personaggi, che sono spesso così sciocchi da pensare di possedere ancora una cosa come il libero arbitrio. Il destino non risparmia nessuno: sarà proprio il predicatore Roy a uccidere sua moglie Helen (convinto di poterla riportare in vita), e sarà un cancro a portare via Charlotte a Willard e Arvin. La voce narrante tace, forse per pudore, ma è come se dicesse, «ecco che cosa succede a non seguire il percorso che Dio ha stabilito per voi». E questo è solo l’inizio.

Arvin, a questo punto, è il trait d’union tra tutti i fili, spaziali e temporali, della storia: il suo incontro con il Male è precoce e scatena una spirale di eventi a cui noi spettatori assistiamo impotenti. La morte compare in sordina, perché in realtà è sempre stata lì, e questo è il grande pregio di Le strade del male. Campos e Pollock sono abilissimi, attraverso la scrittura e la fotografia, a permeare tutto il film di un’atmosfera opprimente, irrespirabile e terribilmente affascinante. Il male è lì, lo sappiamo, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo: ci attira, perché pensiamo sempre – esattamente come Arvin.

Il film, del resto, è anche la storia della sua formazione – di poterlo controllare, sfruttare a nostro vantaggio, usare “a fin di bene”. La verità, però, è che il Male è come il gioco del Domino: basta colpire la prima tessera, apparentemente insignificante, per sapere già che anche l’ultima cadrà.

Questa pare essere la logica narrativa su cui Le strade del male si regge: la regia di Campos lascia spazio al racconto della voce fuori campo di Pollock, fa un passo indietro e dunque appare non particolarmente degna di nota. Più la trama s’infittisce, più le storie dei personaggi si complicano e s’intrecciano, più si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un romanzo per immagini, sì, ma pur sempre a una storia raccontata con le parole, più che con gli strumenti specifici del linguaggio cinematografico. Così, la voce narrante in terza persona – un narratore onnisciente d’altri tempi – diventa croce e delizia del film, costituendo la sua grande peculiarità, ma al contempo rappresentando un ostacolo per il suo completo sviluppo.

Lo spettatore-ascoltatore è preso per mano e portato nei meandri della storia, senza però che il montaggio gli sia di grande aiuto. I tagli danno troppo spesso l’impressione, anzi, di rispondere alla volontà di una giustapposizione visiva e narrativa che si fa fatica a seguire. Forse troppa fretta, forse c’era troppo da raccontare.

Rapiti da quest’atmosfera magica e inquietante, troppo spesso tuttavia ci ritroviamo a chiederci: da dove è arrivato il nuovo, enigmatico predicatore (un Robert Pattinson eccellente che continua a crescere quanto a varietà di registro)? Perché dare così tanto spazio a un personaggio come lo sceriffo Bodecker (Sebastian Stan), che non si risolve se non in rapporto con i protagonisti? Cosa lega la famiglia Russell ai due serial killer che imperversano per le strade uccidendo autostoppisti in modo creativo e macabro per trarne fotografie “artistiche”?

Questi interrogativi, tipici dei racconti neri o gotici, non trovano risposta se non alla fine, e non tutti trovano una risposta soddisfacente: viene da pensare che, per Campos e Pollock, l’atmosfera fosse molto più importante del mero susseguirsi delle vicende. Un’ombra affascinante si deposita su tutto il film – a volte anche sulla sua coerenza interna –, innalzandolo e compromettendolo parzialmente. La storia e i personaggi – nel caso di alcuni, dotati di un background troppo scarso per risultare credibile – sfumano, resta solo l’aria intorno, un’aria brutta, carica di dolore e di rabbia che tengono insieme ogni cosa, come un filo rosso.
E il filo rosso è evidente: il Male, che riesce sempre a trovare le sue Strade.

(Le strade del male, di Antonio Campos, 2020, thriller, 138’)

 

LA CRITICA - VOTO 7/10

Con Le strade del male, Antonio Campos dà vita ad un “gotico americano” carico di atmosfera e di suggestioni; tuttavia, nonostante la presenza dietro le quinte dell’autore del romanzo da cui è tratto, o forse proprio a causa di essa, il film indulge eccessivamente nella letterarietà e finisce per diventare a tratti fumoso, penalizzando ciò che rende queste storie non solo affascinanti, ma memorabili: la trama e i personaggi.