Flanerí

Libri

Elegia della giovinezza e della mancanza

Su “Atti di un mancato addio” di Giorgio Ghiotti

di Giulia Eusebi / 3 maggio

«Questo libro è dedicato a coloro che, in un modo o nell’altro, hanno fatto sì che noi potessimo continuare a camminare. Ai dispersi, sulla terra ovunque». Con questa dedica evocativa, si chiude – o si apre, a seconda dei punti di vista – il nuovo romanzo di Giorgio Ghiotti, Atti di un mancato addio (Hacca, 2021).

A due anni di distanza dalla raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019), Ghiotti torna con una storia di un giovanissimo gruppo di ragazzi colti in quello strano e perturbante momento che è la post adolescenza. L’amicizia di Edo, Massi, Cecchi, Trottola e Giulio ­­­– conosciutisi durante il periodo universitario e consorziatisi tra loro proprio in virtù delle solitudini e delle mancanze seppur diverse che li albergano – è narrata con estremo garbo dalla voce di uno di loro, Edoardo, che in un dopo sfuggente che lo vede adulto e scrittore decide di camminare avanti e indietro lungo la linea del tempo per narrare quel “bagliore di giovinezza” e gli avvenimenti accaduti in quegli anni.

Pur nella loro lampante diversità, appare chiara fin da subito la presenza di un potente motore che accumuna e alimenta le vite dei protagonisti: si tratta dell’approccio quasi mistico al viaggio, come strumento per cercarsi e perdersi di continuo, metaforicamente e non, lungo le traiettorie dei treni regionali su cui salgono per andare incontro a posti conosciuti e sconosciuti.

L’ebbrezza di visitare borghi nella provincia laziale, le gite al mare sono un modo per amplificare le proprie esistenze, per regalarsi un eterno hic et nunc che trova il suo culmine con il viaggio a Bologna, luogo che sempre evoca in Edoardo sentimenti di intimità conturbante. «Viaggiavamo di continuo, in preda a un senso criminale e divino della vita. Affamati e innocenti come lupi bianchi. Ognuno scappava da qualcosa, verso qualcosa. Ci erano ignoti la partenza e l’arrivo, quel muoversi insieme in direzione di. Ci era noto soltanto il ritorno. E il ritorno era la madre. E la nostra madre era un simbolo, un nome, una bestia. Era Roma dal ventre gonfio di latte, e noi i suoi cuccioli dalla bocca sporca di bianco».

Ma nonostante la presenza di questa Roma avvolgente e rassicurante, o più precisamente del quartiere San Lorenzo che non viene meno ai suoi luoghi sacri, canonici e, in certo qual senso, stabilizzanti, nonostante questo, quindi, c’è chi decide di incamminarsi su una strada che non è più quella del branco, e scompare per sempre dall’orizzonte. È quanto sceglie di fare Giulio, «che un giorno ha camminato sulla Tiburtina, camminato camminato e non è tornato più indietro».

Questa sottrazione, ennesima mancanza che scava il proprio antro nelle anime di chi resta, Ghiotti riesce a trasformarla in una presenza eterna. E se il lutto si può elaborare, la scomparsa è un magma terribile che riemerge in superficie sotto forma di domande e solidifica in misteri destinati a rimanere insoluti.

«L’umanità si divide in persone che hanno buona memoria e persone che sanno improvvisare».

Di sicuro l’io narrante della storia fa parte del primo gruppo, sebbene la sua memoria si regala la libertà di cambiare, rimescolare e, perché no, di mistificare le immagini e le parole che danno corpo alla storia. Giulio, invece, è l’improvvisatore. Colui che riesce nel coup de théâtre più complesso, quello di far sparire sé stesso per donare alla propria persona lo status vampiresco dell’inestinto. Trasformandosi così in un essere magico, mitologico, anche prima della sua incarnazione letteraria per mezzo delle parole di Edoardo.

«Lo spreco è la misura della giovinezza» è l’appunto epifanico che l’Edoardo scrittore prende in prestito dallo stesso Ghiotti – in un gioco di specchi la frase si ritrova nel primo capitolo intitolato “Una giovinezza inventata”, tratto da Costellazioni (Empirìa, 2019), saggio di Ghiotti sulla poesia contemporanea – e lascia che questo frammento torni a galla. Forse Giulio, che di tutto il gruppo è quello maggiormente capace di misurare le proprie azioni, decide di venire meno allo spreco e di interrompere la sua giovinezza eternandola. Ma così facendo, consapevolmente, decide anche delle vite dei suoi stessi amici, bruscamente costretti a fare i conti con la sua assenza e la conseguente necessità di trovare il baricentro del “dopo”.

Ghiotti, che ha dimestichezza con la poesia – tra le sue raccolte di poesie ricordiamo La città che ti abita (Empirìa, 2017) e Alfabeto primitivo (Perrone, 2020) –, ci regala un romanzo che assomiglia a un lungo componimento lirico, che fa vibrare nell’aria lo sboccio di un’età dell’oro, quella dei protagonisti, non ancora velata dal nembo dell’età adulta, e fa dire al suo alter ego Edoardo che scrivere non è altro che «cogliere, dalla matassa intricata e informe dell’esistenza, qualche immagine, momenti, poco o nulla, e avvicinarli tra loro senza un ordine definito per reinventare ogni volta la storia; disfarla ancora; darle infine la pace meritata del silenzio».

Il silenzio di tutti gli atti mancati.

A un certo punto, lungo il fluire della narrazione, baluginii lontani sembrano restituire alcune assonanze con Il corpo di Stephen King, non fosse altro che per quella dimensione vagheggiata di giovinezza totalizzante, quei continui viaggi iniziatici per rincorrere zenonianamente la tartaruga dell’età adulta.

Ghiotti la chiama “trentennificazione”, quel tragitto inesorabile su di un “nastro trasportatore” che conduce oltre la soglia della purezza giovanile. Ghiotti, che quella fatidica soglia non l’ha ancora varcata, ha saputo imbastire un «romanzo sulla giovinezza come fosse un’epoca lontanissima», per dirlo con le lucide parole di Sandra Petrignani, in occasione della sua candidatura di Atti di un mancato addio al Premio Strega 2022.

Viene da chiedersi come abbia fatto Ghiotti a trattare una materia a lui così vicina, la giovinezza, con il tocco maturo di chi ha già consumato parecchie paia di scarpe. Ma forse anche questo deve restare un mistero, come quello di Giulio. Forse diventare adulti significa comprendere che alcuni nodi non possono essere sciolti, ma vanno accettati. E questo è ciò che deve fare anche il lettore.

 

(Giorgio Ghiotti, Atti di un mancato addio, Hacca, 2021, 186 pp., euro 15, articolo di Giulia Eusebi)