Libri
Sul riscatto degli sconfitti
Una conversazione a partire da “Animale“ e “Sangue di Giuda”
di Giuseppe Nibali e Graziano Gala / 3 ottobre
Continuano le conversazioni di Flanerí tra scrittori e scrittrici. Oggi ospitiamo gli autori di due tra i più interessanti esordi degli ultimi tempi: Giuseppe Nibali, con Animale (Italo Svevo Edizioni), e Graziano Gala, con Sangue di Giuda (minimum fax).
Al centro della conversazione il lavoro sulla lingua, il rapporto tra letteratura e provincia meridionale, il significato della sconfitta, lo scontro con i padri.
Giuseppe Nibali: Vorrei partire innanzitutto dicendoti che il tuo lavoro con Sangue di Giuda è secondo me (e senza dubbi di fraintendimento) un punto importante della nostra generazione in letteratura.
Mi piace partire da questo non solo per chiarezza, ma perché i due punti su cui voglio soffermarmi sono quelli che lo rendono tale: la lingua e la povera gente.
Partirei da quest’ultimo: entrambi veniamo dal Sud, entrambi sappiamo bene cosa significa l’odore di sudore e di dignità che circonfulge certe figure che possono apparire solo nelle vie del paese, anche della tua Merulana, calco fantastico (e strizzata d’occhio a Gadda) di qualunque contrada, frazione, disperata imitazione di paese che si incontra alle tue latitudini come alle mie.
Ecco, il tuo Giuda ha per me quell’odore, quello delle feste di Sant’Antonio che affollano i miei ricordi di infanzia, alle quali i muratori e i manovali partecipavano dopo il lavoro, conservando, fatta la doccia e messo il vestito buono, quell’odore inconfondibile.
Poi, certo, la lingua. Mi sembra tu abbia lavorato sulla scorta di alcune delle migliori prove del Novecento, c’è tanta letteratura siciliana, il già citato Gadda, Anna Maria Ortese ma anche e soprattutto un lavoro genuino di ascolto e di calco, come in un laboratorio linguistico dove ci si è prefissi di creare una lingua unica meridionale, mai banale, mai monotona ma sempre comprensibile (anche senza il glossario che hai posto nel finale).
Queste due cose, per iniziare.
Graziano Gala: Giuseppe, mi fai emozionare, e io ho visto una parentela nella storia di quell’altro giuseppe, facciamolo minuscolo, quell’altro, spero non si offenda, nel vederlo pellegrino a dover fare i conti con domeneddio, per citare Verga, che deve essere uno nodale per entrambi se ho drizzato bene le antenne. Dai poveri, se sei d’accordo cominciamo da lì: io Animale l’ho amato, e per un punto chiave che non ha a che fare con lo stile, i personaggi o la narrazione (mi devi scusare, sono un ragazzo elementare): è che io, in quel testo, mi sono riconosciuto. Tu parli prestissimo di odore di sconfitta, ti cedono le ginocchia, non puoi fare altrimenti: l’odore è aspro, ti affonda le narici, e quell’odore – io e te –, senza pietismi, lo conosciamo benissimo. Allora io una domanda voglio farti, a cuore aperto, perché ci terrei tantissimo a sapere la tua opinione: il riscatto di questi sconfitti, esiste? O raccontare queste storie, metterle a parte degli altri, degli indifferenti, è già il riscatto? Basta il sapere che mi ascoltano a rovesciare l’intero gioco? Pe’, ci si salva davvero o la salvezza è l’abbraccio e il lasciar andare le lacrime? Ti chiedo scusa sin d’ora, parlerò a cuore aperto, amico mio.
GN: Quella cosa lì che ti fa tremare le gambe io la conosco bene. Io quello volevo dire, solo quello. Ché se ci pensi noi siamo la prima generazione che parla della propria sconfitta, mi pare si sia fatto poco, e non di parlare della sconfitta, ma della propria, che è una cosa che fa più male, un male, mi pare, senza rimedio. Quel giuseppe lì (mi piace il minuscolo, ma ancora devo capire chi è che se lo merita) la conosce bene l’arte della sconfitta, e mi pare che il tuo Giuda, da subito, dal primo vagito del televisore, la conosce meglio ancora.
Mi chiedi, amico mio, se ci si salva. E io non lo so. Proprio non ne ho idea. Forse qui i nostri testi divergono, nella struttura di disgraziato che propongono. I miei due, Sergio e Giuseppe, hanno dalla loro le città e le università, che sono modi per dirsi superiori e trovarsi, nella miseria, due volte fottuti, ma questo pompa in pancia al testo parte dei drammi del nostro tempo: internet, i social, l’antropocene, i cambiamenti climatici et cetera. Tu, per ragioni di ambientazione e di stile, sei tornato al tempo in cui, al luogo in cui, il vecchio televisore a tubo catodico è ancora un oggetto desiderato e desiderabile, e ti voglio bene per questo, ché mi hai fatto pensare al Telefunken che mia nonna ha regalato ai miei genitori quando si sono sposati.
Ecco, non ci si salva, ma ci si sfoga e, quando va bene, ci si riconosce in questa vita che è tutta una miseria e una sconfitta.
GG: Io ti voglio ancora ringraziare perché mi sono emozionato. Allora penso sia il caso di farci immediatamente male e senza troppa gentilezza: togliamoci il dente, Pe’, che prima o dopo ci tocca. «Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie»: veniamo, letterariamente, non mi permetterò di citare la carne e le ossa, da giganti che cadono, figure paterne enormi e terrificanti con le quali dover fare i conti in un qualche maledetto modo. Come la si risolve, con questi padri? (Scusa Giuse’, carico sempre a briscola, ma è che la soffro, questa parte.) Io non ci sono mica riuscito, il pericolo è rimasto dentro gli armadi. Tu, ai miei occhi, sei stato più solido, più capace. Saremo mai liberi o avremo sempre il peso nello zaino? giuseppe, quello piccolo, come la vede?
GN: Qui chi lo prende prende è un peso, sia se se ne fa carico il piccolo sia se ci pensa il grande. Perciò faccio rispondere Vincenzino Consolo, con quel pezzo di bravura che hai messo in esergo al tuo testo (uno, fra i molti): «Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore». Ecco. Sì. Scrivere questo romanzo quello è stato. Ed è servito anche a tirare via un po’ di veleno dall’animale che qui ti sta scrivendo. Ma i discorsi sempre due sono: fare i conti con il padre e fare i conti con i padri. E sono diversi. Perché il primo discorso riguarda noi come individui e il secondo riguarda noi come autori.
Mi pare poi che ci troviamo un po’ meglio tutti con i nonni e con i fratelli dentro questa generazione. Tu che pensi?
E ancora: c’è una cosa che voglio chiederti, che sempre si chiede e talmente tanto che poi pare banale: come t’è venuto Giudariello? Io questo personaggio qui l’ho amato quanto ho amato il Bonfiglio Liborio di Rapino. Da dove esce Giuda, quello vero?
GG: Tu citi Consolo, con quella frase: pagina tre di Giuda, l’epigrafe. Lo vedi che siamo parenti io e te? Giudariello viene da Antonio Cosimo Stano ferito a morte dall’indifferenza di un paese, da me che lo vengo a sapere e piango come fosse un mio familiare e penso che meritava, in qualche modo, di poterla usare la sua voce, alla stessa maniera di Lelio Baschetti, morto dimenticato per anni in una casa. Io mi trovo bene con gli ultimi, con gli altri, gli ordinati, tendo ad affogare. Con Remo un miracolo: nessuno sapeva dell’altro, minimum fax ci fa incontrare a Genova – dopo cinque minuti ci abbracciamo. Avevamo entrambi gli occhi di bambino. Liborio è fratello maggiore di Giudariellu e quelli se ne vanno in giro mano nella mano, spasulati. Bisogna ringraziare Stassi: gli editor non li si ringrazia mai abbastanza. E so che pure tu ne hai uno molto bravo. Un’ultima cosa, però, un dubbio: Pe’, assodato che i padri sono muri inscalfibili e che a spallarli ti ci ammazzi, dopo, cosa viene? Il mio cuore però vorrebbe chiedere al tuo giuseppe: dopo, cosa resta? Ti abbraccio fratello mio, è stato un piacere.
GN: Questa conversazione mi ha fatto bene. Dostoevskij nei Demoni scrive: «la nostra felicità è in disordine» e così è stato per me qui parlare con un fratello di letture e letterature come sei tu. Quindi, con questa felicità disordinata ti dico che si scrive tutti la stessa storia, chi meglio chi peggio. Il tuo Giuda arriva direttamente da Antonio Cosimo Stano, il mio Sergio viene da una crasi tra tre figure, due padri e un uomo importante per i movimenti extraparlamentari di Bologna e tutto il lavoro è stato farli lavorare, mescolare bene bene col ferruzzo per non farli impazzire e per tenere la mescola coesa.
Spallare i padri è l’ossessione, da sempre, che mi perseguita. Ma non si può fare, è cosa che ci fa ittari sangu e basta. Ma dopo, dopo che ce ne siamo accorti, che abbiamo capito che questo è lavoro da perderci la testa, ecco: dovrebbe venire qualcosa per il nostro tempo. Io questo voglio, in questo spero. In un grande tempo nuovo. Ma è come se i padri, veri e metaforici, spingessero nell’altra direzione. Non lo so. E forse per questo mi sono messo a scriverle le cose, invece di viverle e basta. Perché non capisco mai cosa resta, dopo.