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“Nûr – Eresia e Besa” di Gëzim Hajdari
di Fabrizio Miliucci / 31 maggio
Nûr – Eresia e Besa (Edizioni Ensemble, 2012) di Gëzim Hajdari arriva come un punto interrogativo nella poesia contemporanea italiana. E bisogna considerarsi fortunati ad incontrare questo autore e la sua ultima opera, innanzi tutto perché un punto di domanda consente una pausa quanto mai necessaria nella cadenza di una voce che comincia a farsi strozzata, e poi perché nella pausa si riprende ossigeno e si ha la possibilità di riflettere (fosse anche per pochi istanti) su quali siano le prospettive del discorso.
I due atti (Eresia e Besa) della messa in scena “hajdariana” ci raccontano una storia di intolleranza e fraintendimento culturale. Il protagonista-autore Gëzim si arrampica su una croce in occasione della Pasqua ma il suo gesto di omaggio viene scambiato dalla Chiesa romana per un affronto, Gëzim è catturato dalla Santa Inquisizione e posto in arresto. Dall’altra parte dell’Adriatico la madre Nûr avverte la disgrazia occorsa al figlio ed evoca i suoi numi tutelari. Questo il canovaccio su cui si basa il movimento dei personaggi nel teatro immaginato dal poeta. Italia e Darsìa (Albania del nord) sono i due estremi geo-culturali della piece in cui massimamente il narratore fonde la propria vena drammatica all’epos popolare della sua terra, dove regnano giuramento (besa), sangue, onore, pane e vendetta.
L’intento tutt’altro che celato di Hajdari è quello di dotare la cultura europea di uno strumento per decifrare la grande tradizione orale (il codice d’onore del Kanûn) che da secoli regola la vita nelle Bjèskët e Nëmùna (Montagne maledette). L’amplificatore usato per dare un respiro internazionale all’impresa è la lingua italiana, coprotagonista nelle pagine di Nûr insieme all’albanese, con la quale spartisce secondo le indicazioni del poeta stesso l’onere/onore della composizione in una logica di simultaneità.
Attraversando Nûr – Eresia e Besa il lettore italiano si troverà alle prese con uno stile solenne a cui non è più abituato, di tanto in tanto alzerà lo sguardo dalla pagina turbato dal sospetto di un lirismo privato mimetizzato nella narrazione epico-drammatica, non capirà più dove si trova il confine tra autore e protagonista, tra storia personale e nazionale, dubiterà della buona fede che inizialmente aveva dato per scontata, si chiederà quale sia il senso di un dramma in versi oggi, farà la lotta col proprio gusto lirico, soffrirà questi versi essenziali, queste parole misurate sul filo della necessità narrativa, questa poesia secca e imponente come le montagne da cui deriva la propria esistenza; sentirà il suo orizzonte soffocato dall’aria rarefatta e al termine della lettura-scalata, inesorabilmente, non troverà l’ultimo appiglio, la risposta ai suoi turbamenti. Sarà di nuovo solo a fronte di una cultura che aveva creduto solida, affidabile per ogni tipo di viaggio, vaccinato contro ogni dubbio estetico e morale, gli sarà negato perfino il panorama che è ricompensa dello scalatore.
Ecco, questo ci sembra il valore più alto di una poesia che frana sul lettore dall’antichità di un mondo sconosciuto, non tenuto in considerazione. La radicale e forse inconsapevole forza di modificare la materia stessa di cui è fatto il lettore (lo stanco, straziato, sofisticato lettore italiano), si staglia come un valore nuovo all’interno degli usati (logori) schemi espressivi odierni.
E come in vista della vetta ci si sente in debito d’ossigeno, anche noi ci sentiamo in debito col generoso cantore Gëzim per aver condiviso con noi la sua S/storia, per aver fatto noi lui, per essere stato lui noi.
(Gëzim Hajdari,Nûr – Eresia e Besa, Edizioni Ensemble, 2012, pp.138, euro 15)