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“Sanguisughe” di David Albahari

di Ruzica Babic / 16 luglio

Sanguisughe, di David Albahari, potrebbe essere definito un romanzo storico sulla comunità ebraica di Zemun, che sfocia a tratti in una storia sull’antisemitismo. Quest’ultimo viene rappresentato simbolicamente nel romanzo dalle paure di più vasta portata della società serba, sempre più diffuse a partire dagli anni ʼ90: intolleranza e odio verso le persone di diverso aspetto, opinioni e posizioni. L’autore stesso ha definito Sanguisughe un romanzo sui pregiudizi che cambiano le persone facendole diventare esseri ubbidienti e ciechi. Tali pregiudizi, tuttavia, non sono certo limitati soltanto alla comunità Zemun. Le “sanguisugheˮ, sostiene Albahari, sono persone che cercano di succhiarci via tutti i residui del bene, lasciandoci nelle mani del male.  

Il romanzo, però, non può essere difinito come un testo impegnato politicamente: non vi leggiamo critiche dirette al sistema politico in Serbia nè alle crescenti manifestazioni di antisemitismo e intolleranza. Ciò che interessa l’autore è invece il testo stesso: le tecniche narrative del postmodernismo, i cambi di registro dei vari generi narrativi, le frequenti riflessioni sull’atto stesso della scrittura che rappresentano un distacco metanarrativo dalla struttura principale.

Il protagonista del romanzo, scrittore e giornalista del quotidiano belgradese Minut, assiste involontariamente a una scena che non riesce a spiegarsi e che diventa per lui, nelle settimane successive, un’ossessione e un mistero la cui soluzione, gradualmente, si erge a ragione stessa della propria esistenza. Un uomo vestito con un impermeabile nero, un ragazzo e una ragazza vicini al fiume, uno schiaffo, la ragazza che si allontana. Questi sono i protagonisti dell’episodio che segna l’inizio di una lunga ricerca fatta di domande, incontri pericolosi e casuali, presenze di segni mistici e manoscritti cabalistici che trasportano l’esistenza grigia del giornalista in un mondo parallelo, affascinante ed estraneo, fonte di frustrazioni, pericoli e paranoie, ma che allo stesso tempo gli offre una via d’uscita da una vita quotidiana altrettanto incerta e pericolosa, fatta di censure e sospetti.

La paranoia è reale o no? Esiste un legame tra gli eventi inspiegabili e la realtà gremita di tensioni e incombenti pericoli? Si può non credere in un certo tipo di legame che collega i fatti reali o immaginari con la nostra vita? Il protagonista non riesce a darsi delle risposte e proprio in questo sta la sua salvezza, nel continuo fluttuare tra la realtà, il lavoro che offre poche libertà e soddisfazioni, e, dall’altro lato, un mondo mistico fatto di incontri affascinanti, testi cabalistici e fumo di hashish.

Il romanzo non offre risposte univoche e definitive; saremo noi lettori a costruirle, se lo vorremo. La storia ha un finale aperto, gioca su regole dettate da noi, lettori postmoderni che a nostra volta non cerchiamo risposte definitive nel testo che leggiamo, ma vi cerchiamo diverse soluzioni possibili, diverse interpretazioni dei dolorosi avvenimenti storici, sebbene spesso, come in questo caso, ciò significhi rifugiarsi nel mondo del misticismo, unica reazione possibile davanti all’incombente e inutile spargimento di sangue nelle nostre terre.


(David Albahari, Sanguisughe, trad. di Alice Parmeggiani, Zandonai, 2012, pp. 360, euro 17)