Cinema
[Amarcord] “Cane di paglia” di Sam Peckinpah
di Alessio Belli / 17 agosto
Ogni grande regista – e Peckinpah è uno di questi – ha la sua dannazione, il suo stile unico, e una croce tematica che lo accompagna per tutta la filmografia. E solo i grandissimi registi riescono a portare all’estremo i propri argomenti. Peckinpah ci riesce con Cane di paglia, del 1971, da lui stesso sceneggiato insieme a David Goldam, basandosi sul romanzo The Siege of Trencher’s Farm di Gordon Williams.
I bambini che due anni prima torturavano uno scorpione, gettandolo in pasto alle formiche nella sequenza iniziale del Mucchio selvaggio, adesso sono più carini e fanno giochi più tranquilli; girano in cerchio, scherzano con un cagnolino bianco, corrono spensierati e si nascondo sorridendo. Forse sono così felici perché il desolato e polveroso scenario western dell’opera precedente si è trasformato in un verde paese della Cornovaglia. Eppure non si può star tranquilli, perché la complessità del genio di Peckinpah esplode anche nel più anonimo dei paesetti e la violenza più pura e spietata finisce per bruciare anche la paglia di cui è fatto il mite Dustin Hoffman.
È lui il docile, passivo e remissivo cane di paglia del film, il cui titolo cita un passaggio del cinese Libro del Tao e della Virtù di Tao Te Ching, del 570 a.C.
È lui David Summer, il matematico con una fresca borsa di studio, appena trasferitosi nella campagna inglese dove è cresciuta la moglie (Amy, figura dolce, angelica, delicata, ma insoddisfatta per la fragilità e la poca tempra del marito), con il nobile intento di dedicarsi a pieno ai suoi studi matematici.
Siamo appena all’inizio eppure già qualcosa stride, non torna. Sarà che Summer, dietro gli occhiali e l’abbigliamento pacato, non sembra avere molto a che fare con il ruvido e grezzo stile di vita della gente del posto. Infatti finisce subito sotto le grinfie degli abitanti: quando si siede al bancone del bar è la vittima prescelta, per non parlare di alcuni vecchi amici della moglie, che stanno facendo dei lavori nella loro casa, e ben presto si trasformano nei primi vessatori del povero studioso. La bomba a orologeria piazzata dal regista sta facendo sentire il proprio ticchettio in modo sempre più fragoroso. C’è da aspettarsi qualcosa di brutto.
Soprattutto perché Amy inizia a passare seminuda davanti la finestra di casa, lasciando pochissimo spazio all’immaginazione dei già affamati operai, tra le cui fila si cela qualche ex non ancora appagato. Potrebbe accadere il peggio ma David, da buon cane di paglia, non si accorge di nulla, o forse lascia passare di proposito, perché il suo impegno è dedicato in ogni minima parte alla grossa lavagna piena di numeri e simboli che troneggia nello studio. E intanto il ticchettio si fa sempre piç presente e l’atmosfera inizia a farsi insopportabile, soprattutto quando Summer si trova il gatto nero appeso per il collo nell’armadio. Il messaggio è chiaro: «tu potrai pure essere il padrone di casa, potrai anche avere una borsa di studio, ma qui comandiamo noi e noi facciamo ciò che vogliamo. Tu sei il cane di paglia». Sembra di sentire un’anteprima d’esplosione, che è proprio Amy (sempre più insoddisfatta) a innescare: il giorno dopo c’è una riunione tra operai e padroni di casa ed Amy serve alcolici agli operai – perché loro sì che sono uomini – mentre al marito porta un bicchiere di latte, rendendo ancora più palese lo sdegno nei suoi confronti. Alla fine si arriva a un invito: i manovali invitano il matematico a una battuta di caccia, la sua occasione per tirare fuori gli attributi. Ecco allora una delle scene più complesse e terribili del regista californiano; non c’è il caos delle infinite scene di scontri a fuoco, non ci sono duelli, colpi o spari, e il rosso acceso del sangue ancora non si vede. Ma si capisce subito che l’invito è una trappola: mentre David è a caccia, due operai violentano sua moglie. Si tratta senza dubbio di una delle scene più crude della filmografia di Peckinpah: il montaggio è tagliente come una lama e inframezza lo spaesato e goffo protagonista impegnato nei tentativi di fare fuoco al lento e spietato svolgersi dell’abuso, così realistico da essere stato vittima della censura. Quando i due operai avranno finito, il matematico riuscirà ad abbattere un volatile. Si dirigerà verso casa ma, anche a causa dell’omertà della moglie, non intuirà nulla.
Alla fine, però, la bomba esplode: il regista sembra voler riadattare per l’occasione la carneficina messa in scena solo due anni prima, al confine, nel memorabile Mucchio selvaggio. Il cane di paglia, stufo di subire, prende fuoco e inizia a bruciare tutto ciò che ha intorno. Henry, il ragazzo del paese con qualche deviazione già pericolosamente degenerata in passato, la sera dello spettacolo uccide una ragazza con cui si era appartato. Scappa per la paura e a momenti non si fa uccidere dalla vettura di David, che lo porta a casa sua per farlo riprendere. Ecco la vera esplosione. Una deflagrazione contemporanea di tutti gli elementi che avevano fatto rumore e creato ansia e angoscia fino a quel momento: Amy non vuole tenere Henry in casa, nel frattempo i paesani ubriachi e armati hanno deciso di assaltare casa di David per sottrargli il ragazzo e linciarlo. Ma il matematico non è più l’individuo del titolo del film, e pezzo per pezzo si prepara a resistere; lo hanno umiliato, preso in giro, gli hanno stuprato la moglie, ma non entreranno mai in casa sua. Questo è ciò che urla, armato di fucile, dietro le barricate. L’ingegno e la violenza più turpe si fondono nello sconcertante finale in cui gli assaltatori, in un modo o nell’altro, vengono uccisi. Ed è il dialogo finale tra Henry e David a rendere il film un capolavoro assoluto, un film in cui la profondità dei temi e l’abisso dei personaggi si fondono davanti agli epici movimenti di macchina.
Tornando in automobile verso il paese, il sopravvissuto al linciaggio confessa all’ex cane di paglia di non conoscere la via. La via con la V maiuscola. David allora sorride, nonostante sia grondante di sangue e abbia gli occhiali scheggiati, e a sua volta ammette di non conoscerla nemmeno lui.
Non si può parlare di questo film senza accennare all’immensa interpretazione di Dustin Hoffman. Uno dei massimi – forse il più grande – esponente del metodo dell’Actor’s studio sconvolge come mai aveva fatto il proprio registro interpretativo, il suo stile. Per recitare David Summer, l’attore americano si basa sulla sottrazione e non sull’aggiunta di mosse, tic, particolarità e scatti di nervi, come aveva fatto in precedenza (basti pensare a Un uomo da marciapiede, in cui per rendere più realistica la sua interpretazione dello storpio Rizzo, s’era messo delle schegge di vetro nella scarpa). All’assenza di personalità del protagonista s’accompagna l’assenza di caratterizzazioni, di tratti salienti, rendendo ancora più impressionante la metamorfosi dello studioso quando si avvicina alla battaglia finale; dall’insipida passività alla fredda e spietata perfezione omicida. Il merito della grandezza del film va senza ombra di dubbio alla sua recitazione, da annoverare tra le migliori di sempre.
Il discorso vale anche per il regista, qui di fronte alla sua opera più controversa e spietata. In Cane di paglia Peckinpah dà sfogo a tutta la sfiducia che prova verso il genere umano, largamente dimostrata nei suoi western sporchi e folli, nei quali il sogno americano si sbriciola insieme all’integrità dell’essere umano, ridotto e regredito al livello animale. Sui binari del pessimismo e della violenza si muove quest’opera, altrettanto duplice e non lineare sotto altri aspetti molto interessanti. Peckinpah sembra urlare le sue convinzioni: il mito dell’evoluzione è un falso, le leggi che regolano la società sono fasulle; è la violenza che regala tutto e lo stupro è l’unica forma di rapporto. E nessuno – nemmeno un cane di paglia – può evitare ciò. È fondamentale notare come solo nell’atto più folle e omicida l’uomo riveli la propria natura: non esistono i cani di paglia, ognuno di noi, se attaccato e privato delle sue cose, si scopre una lucida mente del male. Solo la violenza è ordine, al contrario del reale caos che opprime l’umanità, pregevolmente simboleggiato nel film dalla parete-lavagna piena di numeri e operazioni senza un fine e un risultato. Come interpretare poi l’altrettanto complessa figura di Amy, prima seduttrice e poi vittima degli aguzzini? Che prima aizza i nemici contro il marito e poi preme il grilletto con lui? Di risposte ce ne sono poche, lo ammette lo stesso Peckinpah quando parla per bocca dei due sopravvissuti nella scena finale: la Via (quella dell’umanità) è sconosciuta, buia e fosca come la strada che percorrono i due in macchina, quasi oppressi dall’oscurità.
Eppure: «C’è dell’ironia in tutto, bisogna solo essere tanto imbecilli da saperla individuare». Parola di David Summer. Parola del cane di paglia.
(Cane di paglia, regia di Sam Peckinpah, 1971, drammatico, 118’)