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“Fare scene. Una storia di cinema”. Intervista a Domenico Starnone
di Luca Tortolini / 12 luglio
Nell'aprile del 1995 usciva nei cinema il film, amatissimo, La Scuola. Io avevo 15 anni e sono andato a vederlo, come tutti, con alcuni compagni di scuola: il film parlava proprio di noi, dei nostri professori, della nostra scuola sebbene non fossimo nella periferia di Roma; eravamo nella provincia marchigiana. L’abbiamo visto più volte, devo dire, e ci divertivamo a citare le battute del film: “Oddio, è caduto Vasco!”, “Eh, c’è chi è nato per zappare!”, oppure facevamo ‘l’urlo della notte’ e l’imitazione della mosca. Solo tempo dopo abbiamo letto i libri da cui era tratto il film, Ex cattedra, Fuori registro e Sottobanco. Così, io e i miei compagni di classe abbiamo conosciuto e cominciato ad amare lo scrittore Domenico Starnone.
Fare scene. Una storia di cinema (ed. minimum fax 2010) è un libro bellissimo sul cinema, sulla passione per il cinema. Il libro è diviso in 3 parti: Primo tempo, Intervallo e Secondo tempo. È il racconto di come la passione si è impadronita dell’autore bambino, di come poi lo ha spinto a non poter far più a meno di immaginare storie, e di come da grande quel bambino sia diventato uno sceneggiatore.
Chiedo a Domenico Starnone del suo rapporto con i personaggi. Come si arriva a costruire dei personaggi così reali, così pieni e profondi?
Un racconto ha bisogno di due cose: la prima è che il lettore creda alla vicenda di cui sta leggendo (e non ha importanza che si tratti della storia di Anna Karenina o di quella di Frankenstein: il principio è lo stesso); la seconda, che è cosa forse ancora più importante della prima, è che lo scrittore creda a ciò che sta scrivendo. I narratori, da sempre, le hanno inventate tutte per sospendere l’incredulità dei lettori e la propria. Io tendo a utilizzare gli effetti di verità che derivano dall’impressione di attingere alle esperienze della mia vita. Ma è un’impressione, appunto, puntigliosamente costruita. Le storie che racconto sono storie di invenzione che attingono a situazioni e a sentimenti che conosco bene: la scuola, Napoli, il mondo letterario e quello del cinema, un ospedale, la gelosia, la passione per la politica, certi lavori, etc. Lo stesso ragionamento va fatto per i personaggi: un personaggio si costruisce modellandolo su persone che si conoscono a fondo, con i sentimenti e le emozioni che abbiamo sperimentato in profondità, con parole e gesti e movimenti interni che abbiamo osservato negli altri e in noi stessi. Ma tutto questo non dà alcun risultato di rilievo se non si trova una tonalità della scrittura, una ‘voce’ capace di raccontare con naturalezza, un nostro stile senza il quale né le storie né i personaggi starebbero in piedi.
Natalia Ginzburg nella prefazione a La strada che va in città, dice che lei scrive non per caso, e intende con questo, il dire di quello che si ama attraverso la memoria che è amorosa e non è mai casuale. Lo condivide?
I libri nascono quasi sempre da occasioni ( un incontro, un malessere, un sogno, un gesto, una memoria, o una proposta editoriale). Ma le occasioni acquistano forza e producono buoni libri solo se smuovono una qualche area nascosta di noi che forse, senza quella opportunità, non ci saremmo mai accorti di avere. Succede a volte che un’occasione tiri qualcosa dal fondo del pozzo, e tutto si avvii subito, in poche settimane nasce un testo. Ma più spesso succede che ciò che è venuto fuori frutti poco o niente e abbia bisogno di tempo, a volte di molto tempo, per articolarsi, trovare senso, lasciarsi raccontare.
Domenico Starnone ha scritto numerosi romanzi – tra gli altri Via Gemito del 2000 con cui ha vinto numerosi premi incluso lo “Strega”, Labilità del 2005, Prima esecuzione e Spavento gli ultimi – e numerosi film – tra gli altri, la Scuola del 1995, Del perduto amore del 1998, l’Uomo nero del 2009. Vive e lavora a Roma.