Musica
“Peter Buck” di Peter Buck
di Alessio Belli / 16 novembre
A più di un anno dalla separazione, cosa ci rimane dei R.E.M.? Se facessimo rispondere tutti, dai fan ai detrattori, dai critici più competenti agli ascoltatori più superficiali, avremmo sicuramente svariate risposte e molti spunti di riflessione. Fortunatamente, la loro musica parla chiaro: l’ultimo disco, Collapse into Now, è il pregevole addio di una produzione con pochi pari nella storia del rock indie e non solo. E tutto il resto diventa solo chiacchiera. Un po’ come è successo in questi giorni, con la prima uscita solista di uno degli ex membri. Ovvero, il disco del chitarrista Peter Buck.
In passato i R.E.M. erano stati chiari: finché il gruppo starà in piedi, nessuno inciderà per conto suo, nonostante le molte collaborazioni a cui la band prendeva parte. Il più attivo da questo punto di vista è sempre stato Buck, capace di regalare negli anni delle collaborazione davvero pregevoli, sempre un po’ passate inosservate. Dal disco degli Hindu Love Gods – ovvero i R. E. M. con il compianto Warren Zevon al posto di Stipe – ai Tuatara, passando per i Minus 5, al supergruppo Tired Pony e ai recenti The Baseball Project, il co-fondatore della band di Athens ha sempre sfoggiato l’amore genuino e viscerale per il rock. In tutte le sue accezioni. Parliamo infatti di una persona che vanta un passato da lavoratore in un negozio di dischi e che attualmente possiede una collezione di circa 25.000 esemplari, tra vinili e cd. Non pago, recentissimamente lo si poteva ammirare dal vivo sotto pseudonimo Richard M. Nixon (un genio, signori!) accompagnato dal fedele Scott McCaughey (leader dei Minus 5 e da anni chitarrista aggiunto dei R.E.M.). Era il preambolo dall’ultima, gradevolissima, trovata.
Le poche notizie che trapelavano parlavano chiaro: album anonimo, prodotto dalla piccola Mississippi Records, solo in pochissime stampe, nessuna pubblicità, registrato in analogico e distribuito solo in vinile. Ecco le premesse dell’esordio da solista di Peter Buck. News capaci di scatenare una appassionata ricerca per l’introvabile disco. Una ricerca – qualora risultata positiva – dagli splendidi esiti.
Le canzoni sono state scritte quasi un anno fa, durante un periodo di convalescenza dovuto a un affaticamento alla schiena, in cui Buck – impossibilitato ad armeggiare la chitarra – ne ha approfittato per scrivere i testi. Sia chiaro, questo disco non è l’inizio di una nuova avventura solista, nemmeno un revival sotto mentite spoglie dei R.E.M (comunque presenti sia a livello musicale, che a livello di band, vista la partecipazione di Mike Mills, Bill Rieflin, Scott McCaughey e l’ultimo produttore Jacknife Lee). È la prova d’autore di un musicista che ha regalato al rock degli ultimi trent’anni alcune delle sue vette e che adesso sente il bisogno di mettere nero su bianco la propria antologia. Infatti Peter Buck, così si è deciso di chiamare per convenzione l’album, offre all’ascoltatore tutte le sonorità rock possibili – garage, acustico, folk, indie – e anche lo sterminato repertorio strumentale dell’autore, fatto in primis della fidata Rickenbacker 360.
Ad aprire le danze, il pezzo che già circolava in rete fin da giugno, ovvero “10 Million BC”, una sporca cavalcata dal ritornello coivolgente. Più lenta la successiva “I’m Alright”, recitata fino all’esplosione su una base molto simile a “Suspicion”, presente in Up, del 1998. Ma è sicuramente con la terza traccia che il cuore dell’ascoltatore ha un sussulto: “Some Kind of Velvet Sunday Morning” oltre a essere uno dei pezzi più belli dell’album è anche un momento dove i fasti del gruppo di Athens si fanno più lampanti. “Travel Without Arriving” e “Give Me Back My Wig” continuano la scalata rock pura e semplice del brano iniziale, mentre nella tracklist appaiono i primi pezzi strumentali: “Migraine”, “L.V.M.F.”, “Vaso Loco”. Altro momento splendido è “Nothing Means Nothing”, con l’amica Corin Tucker alla voce. “I’m Alive” è la conclusione perfetta: sia per il riff iniziale che riporta alle orecchie i momenti più distorti di Fables of The Reconstruction, sia perché la sua palpitante foga porta poi alle zone di Monster.
Nel complesso, e volendo fare un paragone con i dischi dei R.E.M., Peter Buck è il New Adventuries in Hi-Fi del chitarrista. Una gamma stupenda e varia di ciò che il rock può fare in tutte le sue sfumature. Non solo un mero passatempo da addetto ai lavori fine a se stesso, ma un disco valido e meritevole per qualità musicale. Ovviamente ai seguaci del gruppo scioltosi un anno fa dirà molte più cose e richiamerà sicuramente scenari maggiori, ma quando il rock è fatto da chi lo vive e lo ama, va consigliato a tutti. Buona caccia.